[vc_row][vc_column][vc_column_text]Autunno 1942. Un militare polacco dell’esercito di resistenza viaggia tra Londra e gli Stati Uniti. Porta con sé un rapporto, nel quale documenta quanto ha visto nel ghetto di Varsavia e quanto stava accadendo nei campi di concentramento creati dai nazisti in Polonia. L’anno successivo viene ricevuto dal ministro degli Esteri britannico, Anthony Eden, e dal presidente degli Stati Uniti, Roosevelt. Felix Frankfurter, giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, gli dirà:
«Un uomo come me che parla con un uomo come lei deve essere del tutto sincero. Così io devo ammettere: non riesco proprio a crederle.»
Quella che avete letto è una storia vera, è la storia di Jan Karski.
Ci sono cose a cui si fa fatica a credere. Molti di coloro che videro con i propri occhi, che provarono sulla propria pelle i lager, tornati in patria non testimoniarono da subito per questo motivo: la paura di non essere creduti. Come il giudice Frankfurter, tra l’latro ebreo, che «non riuscì proprio a credere», forse perché rifiutava di voler anche solo pensare che l’uomo possa arrivare a tanto.
Chissà se è questo lo stesso meccanismo di rimozione che utilizziamo anche ora per ignorare quel che succede al di là del Mediterraneo, in Libia. Tra pochi giorni, se nessuno interviene, verrà “tacitamente” rinnovato il memorandum tra Italia e Libia sulla gestione dei flussi migratori. Un silenzio che, se sarà, non potrà che essere un silenzio complice.
Il testo di quel Memorandum, infatti, è un eccellente esempio di rimozione. Per capirci meglio è opportuno riportarne alcuni passaggi. Nelle premesse si parla della «predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico» (sotto l’esclusivo controllo), ci si sofferma sul fatto che tutte le azioni intraprese «non devono intaccare in alcun modo il tessuto sociale libico o minacciare l’equilibrio demografico del Paese» (come a dire: dai campi non si esce, e gli immigrati non possono fare figli).
«La parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno». Come è stato ampiamente documentato, anche di recente, grazie al lavoro di Francesca Mannocchi e Nello Scavo in particolare, si tratta di organismi istituzionali gravemente infiltrati da criminali e trafficanti di uomini. Le parti si impegnano inoltre all’«adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza summenzionati […] usufruendo di finanziamenti disponibili da parte italiana e di finanziamenti dell’Unione Europea». L’Italia fa uno sforzo in più: «fornitura di medicinali e attrezzature mediche per i centri sanitari di accoglienza» per «soddisfare le esigenze di assistenza sanitaria dei migranti illegali, per il trattamento delle malattie trasmissibili e croniche gravi». Le persone che soffrono di patologie — anche «croniche gravi» — vengono assistite in non ben definiti «centri sanitari di accoglienza». Per concludere, sia mai che vi fosse qualche dubbio, «Le Parti si impegnano ad interpretare e applicare il presente Memorandum nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani di cui i due Paesi siano parte».
Cosa manca in tutto ciò? Manca la realtà dei fatti, manca quel che succede in Libia. Manca quello che succede nei campi che il Memorandum prevede siano sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico.
Quel che succede nei campi di detenzione in Libia è scritto nero su bianco in una sentenza della Corte d’Assise di Milano, datata 10 ottobre 2017, con la quale veniva condannato all’ergastolo un torturatore etiope che operava nel centro di detenzione di Bani Walid, in Libia, gestito direttamente dal condannato.
Altre volte ho fatto cenno a questa sentenza. Credo sia il momento giusto per riportarne alcuni stralci, dato che ci troviamo a ridosso del rinnovo del memorandum.
Quel che avveniva nella camera delle torture era ancora peggio:
In tutto il 2019 sono state 1.600 le persone ricollocate fuori dalla Libia da Unhcr.
Circa 4.000 persone sono a oggi ancora rinchiuse nei centri di detenzione.
I rifugiati e richiedenti asilo registrati dall’Unhcr sono circa 50mila.
Si tratta, ovviamente, di numeri parziali. Ma, a prescindere dai numeri, quel che avviene nei campi di detenzione — e che sappiamo — è una vergogna mondiale di cui l’Italia si è resa complice. Per questo motivo, ancor prima di qualsiasi ragionamento sulle politiche di asilo e sulle politiche migratorie, è necessario non rinnovare il famoso Memorandum con la Libia ed è necessario uno sforzo non più rinviabile perché vengano chiusi i centri di detenzione libici.
Il testo della sentenza è disponibile a questo link.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]