In un pezzo datato 9 marzo, denunciavamo l’impossibilità di coniugare le indicazioni che arrivavano dai tecnici dell’Istituto Superiore di Sanità e le disposizioni del Ministero del Lavoro e di quello della Salute, che creavano gravi problemi nella gestione dell’emergenza sanitaria.
Sono passati esattamente 8 mesi, e ci ritroviamo ancora qui: con gli stessi problemi e con la stessa mancanza di soluzioni efficaci.
Di nuovo, siamo di fronte all’esplosione del sistema di tracciamento e test nella maggior parte delle regioni, motivo per cui sono state istituite le zone rosse. E quelle arancioni, e quelle gialle, che di giorno in giorno arrossiscono un po’ di più.
Ancora una volta, trapelano indiscrezioni sulle bozze dei decreti, che provocano esodi di individui e famiglie preoccupati di restare intrappolati in aree che saranno a breve sottoposte a lockdown, determinando un effetto opposto a quello che si vorrebbe raggiungere attraverso le misure di contenimento.
Per non parlare dell’imbarazzante quantità di decreti, di cui abbiamo perso il conto.
Ma la tragedia va al di là di quella, già gravissima, assistenziale. Il dramma vero sta nel fatto che tutto quello che viene proposto nei DPCM è dettato dalla necessità economica, e non da quella sanitaria. Mentre per uscire dall’emergenza servirebbe l’atteggiamento esattamente opposto.
Anche perché, come tutte le emergenze in Italia – a partire da quella climatica – la pandemia sta assumendo tratti strutturali: va avanti pressoché indisturbata da quasi un anno, e si fermerà ben dopo il vaccino che, comunque, non sembra essere dietro l’angolo.
Questo significa dover convivere col virus ancora per parecchio, e sopravvivere al virus.
Qualcuno potrebbe addirittura pretendere di vivere, nel frattempo.
Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà, diceva qualcuno. Ma la contrarietà è determinante nelle scelte, nelle disposizioni e nelle forti raccomandazioni dei decisori.
Diversamente da quanto accadeva in primavera, non vengono imposte chiusure perché non disponiamo di adeguati strumenti di welfare.
Ancora non si impone lo smartworking ai datori di lavoro per decreto, anzi ci fidiamo del loro buon senso quando sappiamo benissimo che – fatti salvi rarissimi casi – non è una questione di sensibilità ma di policy.
E se è vero che ognuno deve fare la sua parte, è altrettanto vero che la responsabilità individuale è personale ma quella collettiva non è la risultante della sommatoria dei comportamenti dei singoli: la responsabilità collettiva è dello Stato.
Purtroppo è arrivato il momento di prendere atto che la classe dirigente che ci amministra ha preferito tessere relazioni di interesse con i pochi che detengono piccoli potentati sparsi, in nome di un non meglio definito mantenimento dello status quo. Hanno scelto di difendere interessi privati sacrificando la cosa pubblica: i molti, che non hanno potere ma che sono una loro precisa responsabilità e che, in fondo, stanno chiedendo solo di essere governati.