Come spesso accade, le parole del dibattito pubblico risultano vuote. E così mentre tutti ripetono, come un disco rotto, che il confronto sulla revisione costituzionale deve avvenire nel merito, ci si occupa, in realtà, di tutt’altro.
Dopo avere perso settimane a discutere di uno “spacchettamento” del referendum, che semplicemente non è possibile in base alle norme vigenti, è partito da qualche settimana il tormentone sulla fissazione della data della consultazione popolare. Un dibattito al quale stentiamo a credere che ci si possa appassionare tanto, anche considerato che lo spazio per fissare la consultazione è comunque compreso in qualche settimana. Accusare il Governo di voler intercettare la finestra più favorevole alla propria posizione sembra davvero sterile, considerato che è quanto fanno più o meno tutti gli Esecutivi e che quello da cui si pretenderebbe collaborazione su quest’ultima questione è rimasto del tutto sordo a tutte le altre richieste di merito e di metodo relative alla revisione costituzionale.
Ma ancora una volta le maggiori sgrammaticature sono venute proprio dal Governo, che — anche per ruolo istituzionale — dovrebbe stare particolarmente attento ad evitarle.
La prima, a carattere squisitamente politico, lontana anni luce dal metodo costituzionale, consiste nella riproposizione del tema dei risparmi, che il Governo continua a considerare pari a cinquecento milioni, contro l’evidenza di tutti i conteggi fatti, a partire da quello della Ragioneria generale dello Stato, che si fermano al massimo a una sessantina di milioni, tutto compreso. Ma, a parte l’insistenza sui numeri smentiti clamorosamente dai dati ufficiali, l’assenza di senso delle istituzioni è risultato evidente nel “promettere” questi inesistenti risparmi “ai poveri”.
Ora, la povertà è un dramma reale che riguarda circa un milione e mezzo di famiglie e oltre quattro milioni di persone, con un aumento di circa due punti percentuali tra il 2012 e il 2014, secondo il rapporto presentato dall’Istat in un’audizione alla Camera lo scorso marzo. Nello stesso rapporto si nota anche l’Italia destina a questa drammatica situazione circa il 10% in meno rispetto al resto dei Paesi europei. Ciò dovrebbe spingere il Governo ad agire in modo risoluto ed efficace a prescindere da una revisione costituzionale da cui non sono comunque ritraibili risparmi adeguati per affrontare la questione. Anche per non evocare precedenti — certamente lontani e inconferenti — di politici che promettevano la seconda scarpa soltanto a seguito del voto (con l’aggravante che qui non sarebbe stata data ancora la prima).
C’è stata poi una seconda sgrammaticatura, politica e giuridica, quella per cui chi voterà “no” al referendum non rispetterebbe il Parlamento. L’affermazione lascia particolarmente basiti in ragione della sua provenienza da un ministro, anzi una ministra, per di più con competenza funzionale sulle riforme costituzionali. I referendum, infatti, servono proprio per dare la possibilità ai cittadini di pronunciarsi anche difformemente rispetto al Parlamento. Agli elettori, che sono i sovrani, non si chiede “rispetto” ma “espressione della loro sovranità”. Semmai, è il Parlamento che deve stare ben attento — dopo il pronunciamento popolare — a rispettare la volontà dei cittadini, come ha detto la Corte costituzionale con la sentenza n.199 del 2012.
Ora, il referendum costituzionale, peraltro, è stato previsto all’art.138 della Costituzione proprio con questo specifico obiettivo: dare ai cittadini la possibilità — quando siano in gioco le norme fondamentali del proprio vivere insieme — di opporsi alla volontà del Parlamento, cercando di far prevalere la propria. Esattamente ciò che faranno coloro che voteranno NO anche nel prossimo referendum costituzionale. Nel pieno rispetto della Costituzione e dandone corretta lettura. Almeno loro.
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