Luglio è il mese del disability pride, contro abilismo e stereotipi

Per il oltre il 5% della popolazione italiana l’accesso a scuola, lavoro, vita sociale, affettività, sessualità può essere precluso da ostacoli più o meno concreti che vanno dalle barriere architettoniche all’inadeguatezza delle norme che, anche quando presenti spesso non vengono rispettate e a quello più insidioso: la discriminazione.

di Ali­cia Ambrosini

Un mese che cele­bri l’orgoglio di appar­te­ne­re ad una qual­che cate­go­ria avrà un sen­so fin­ché con­ti­nue­rà ad esi­ste­re un “noi e un “loro”, fino a quan­do la disa­bi­li­tà sarà qual­co­sa da nomi­na­re di sfug­gi­ta e con un vago sen­so di ver­go­gna, qua­si si trat­tas­se di una col­pa da espia­re, come inse­gna la mora­le cattolica.

Non dovreb­be esi­ste­re nul­la di cui anda­re orgo­glio­si. Per il oltre il 5% del­la popo­la­zio­ne ita­lia­na l’accesso a scuo­la, lavo­ro, vita socia­le, affet­ti­vi­tà, ses­sua­li­tà può esse­re pre­clu­so da osta­co­li più o meno con­cre­ti che van­no dal­le bar­rie­re archi­tet­to­ni­che all’inadeguatezza del­le nor­me che, anche quan­do pre­sen­ti spes­so non ven­go­no rispet­ta­te e a quel­lo più insi­dio­so: la discri­mi­na­zio­ne.

Abi­li­smo” è un ter­mi­ne che in mol­ti solo da poco han­no comin­cia­to a cono­sce­re e com­pren­de­re ma è un con­cet­to che ha radi­ci anti­che e due fac­ce che pre­sen­ta­no entram­be cri­ti­ci­tà enor­mi, per chi si tro­va ad affron­tar­le ogni giorno.

Se da un lato per­ma­ne il con­cet­to del­la per­so­na con disa­bi­li­tà come di un peso per la col­let­ti­vi­tà, neces­sa­ria­men­te fra­gi­le, da tute­la­re in ogni aspet­to, infan­ti­liz­zan­do­la e pri­van­do­la del­lo sta­tus di indi­vi­duo, iden­ti­fi­ca­ta esclu­si­va­men­te con la sua pato­lo­gia, dall’altro abbia­mo la figu­ra del supe­re­roe che vive in un modo irrea­le, per cui ogni atti­vi­tà quo­ti­dia­na rap­pre­sen­ta l’impresa epi­ca da cele­bra­re, e poco impor­ta se si trat­ta di noma­le ammi­ni­stra­zio­ne, ogni cosa è ecce­zio­na­le, stu­pen­da e d’ispirazione.

Deme­ri­to pre­giu­di­zie­vo­le e lodi a pre­scin­de­re sono le due fac­ce del­la stes­sa meda­glia e allon­ta­na­no ogni gior­no dal rag­giun­gi­men­to di una con­di­zio­ne di normalità.

Nor­ma­li­tà non è una paro­lac­cia, se pre­sup­po­ne pari­tà di dirit­ti e digni­tà, la nor­ma che con­sen­ta a tut­ti, indi­stin­ta­men­te, di poter ave­re le stes­se opportunità.

Ora che il con­cet­to di nor­ma­li­tà è del tut­to muta­to meglio si può com­pren­de­re qua­le sia la quo­ti­dia­ni­tà di oltre tre milio­ni di per­so­ne che vivo­no anche da pri­ma del 2020 limi­ta­zio­ni costanti.

Limi­ta­zio­ni che si sono ulte­rior­men­te este­se a cau­sa del­la pan­de­mia, con il man­ca­to acces­so alle cure, alle tera­pie e all’impossibilità di ave­re un ade­gua­to soste­gno sco­la­sti­co alla dif­fi­col­tà di otte­ne­re l’assistenza domi­ci­lia­re neces­sa­ria per ave­re una vita di qualità.

Ogni gior­no casi di cro­na­ca ci ricor­da­no quan­to anche in un Pae­se che si pre­sup­po­ne esse­re moder­no e civi­le le più ele­men­ta­ri neces­si­tà sia­no, per par­te del­la popo­la­zio­ne bat­ta­glie quo­ti­dia­ne; si discu­te del­la sacro­san­ta neces­si­tà di isti­tui­re l’utilizzo del Green­Pass men­tre anche il sem­pli­ce ingres­so in auto­no­mia in un uffi­cio pub­bli­co sia per alcu­ni impos­si­bi­le da sem­pre, sen­za che que­sto abbia mai radu­na­to alcu­na fol­la nel­le piaz­ze per pro­te­sta­re con­tro ad una “vio­la­zio­ne dei dirit­ti uma­ni”.

Fino a che i pro­ble­mi non ci toc­ca­no diret­ta­men­te dif­fi­cil­men­te pos­sia­mo com­pren­der­ne la por­ta­ta e anco­ra più dif­fi­ci­le è com­pren­de­re il peso del­le cosid­det­te disa­bi­li­tà invi­si­bi­li, che pos­so­no anda­re dal­le malat­tie cro­ni­che inva­li­dan­ti alle neu­ro­di­ver­si­tà, spes­so dia­gno­sti­ca­te solo in età adul­ta, dopo iter lun­ghi e complessi.

Lo stig­ma sul­la fra­gi­li­tà psi­chi­ca poi è il più dif­fu­so e per que­sto il più duro da debel­la­re: i pro­ble­mi che riguar­da­no la men­te sono quel­li più facil­men­te nega­ti o nasco­sti nel­le case, miglia­ia di per­so­ne che a tutt’oggi subi­sco­no l’onta dell’invisibilità, per­ché man­ca una vera rete di sup­por­to ai care­gi­ver che spes­so si tro­va­no ad affron­ta­re situa­zio­ni mol­to più gran­di di loro.

Non può esser­ci nor­ma­li­tà fino a quan­do ogni aspet­to ver­rà livel­la­to sul­le esi­gen­ze di ogni sin­go­lo indi­vi­duo, per­ché que­sto indi­vi­duo uno e uni­co pos­sa espri­me­re le pro­prie poten­zia­li­tà al meglio.

È arri­va­to il momen­to in cui la disa­bi­li­tà pas­si da con­dan­na (per chi ne è por­ta­to­re e per le fami­glie o i part­ner che spes­so devo­no rinun­cia­re a mol­tis­si­mo pur di garan­ti­re l’assistenza neces­sa­ria a chi non può esse­re auto­suf­fi­cien­te) a sem­pli­ce carat­te­ri­sti­ca, sen­za che que­sta pre­de­ter­mi­ni una vita a per­de­re.

Per ades­so c’è anco­ra neces­si­tà di urla­re al modo come la fra­gi­li­tà, si essa fisi­ca, psi­chi­ca o sen­so­ria­le non sia una ver­go­gna, neces­si­ta­re di cure non sia degra­dan­te e una pato­lo­gia non deb­ba mai più esse­re uti­liz­za­ta come insulto.

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