di Alicia Ambrosini
Un mese che celebri l’orgoglio di appartenere ad una qualche categoria avrà un senso finché continuerà ad esistere un “noi e un “loro”, fino a quando la disabilità sarà qualcosa da nominare di sfuggita e con un vago senso di vergogna, quasi si trattasse di una colpa da espiare, come insegna la morale cattolica.
Non dovrebbe esistere nulla di cui andare orgogliosi. Per il oltre il 5% della popolazione italiana l’accesso a scuola, lavoro, vita sociale, affettività, sessualità può essere precluso da ostacoli più o meno concreti che vanno dalle barriere architettoniche all’inadeguatezza delle norme che, anche quando presenti spesso non vengono rispettate e a quello più insidioso: la discriminazione.
“Abilismo” è un termine che in molti solo da poco hanno cominciato a conoscere e comprendere ma è un concetto che ha radici antiche e due facce che presentano entrambe criticità enormi, per chi si trova ad affrontarle ogni giorno.
Se da un lato permane il concetto della persona con disabilità come di un peso per la collettività, necessariamente fragile, da tutelare in ogni aspetto, infantilizzandola e privandola dello status di individuo, identificata esclusivamente con la sua patologia, dall’altro abbiamo la figura del supereroe che vive in un modo irreale, per cui ogni attività quotidiana rappresenta l’impresa epica da celebrare, e poco importa se si tratta di nomale amministrazione, ogni cosa è eccezionale, stupenda e d’ispirazione.
Demerito pregiudizievole e lodi a prescindere sono le due facce della stessa medaglia e allontanano ogni giorno dal raggiungimento di una condizione di normalità.
Normalità non è una parolaccia, se presuppone parità di diritti e dignità, la norma che consenta a tutti, indistintamente, di poter avere le stesse opportunità.
Ora che il concetto di normalità è del tutto mutato meglio si può comprendere quale sia la quotidianità di oltre tre milioni di persone che vivono anche da prima del 2020 limitazioni costanti.
Limitazioni che si sono ulteriormente estese a causa della pandemia, con il mancato accesso alle cure, alle terapie e all’impossibilità di avere un adeguato sostegno scolastico alla difficoltà di ottenere l’assistenza domiciliare necessaria per avere una vita di qualità.
Ogni giorno casi di cronaca ci ricordano quanto anche in un Paese che si presuppone essere moderno e civile le più elementari necessità siano, per parte della popolazione battaglie quotidiane; si discute della sacrosanta necessità di istituire l’utilizzo del GreenPass mentre anche il semplice ingresso in autonomia in un ufficio pubblico sia per alcuni impossibile da sempre, senza che questo abbia mai radunato alcuna folla nelle piazze per protestare contro ad una “violazione dei diritti umani”.
Fino a che i problemi non ci toccano direttamente difficilmente possiamo comprenderne la portata e ancora più difficile è comprendere il peso delle cosiddette disabilità invisibili, che possono andare dalle malattie croniche invalidanti alle neurodiversità, spesso diagnosticate solo in età adulta, dopo iter lunghi e complessi.
Lo stigma sulla fragilità psichica poi è il più diffuso e per questo il più duro da debellare: i problemi che riguardano la mente sono quelli più facilmente negati o nascosti nelle case, migliaia di persone che a tutt’oggi subiscono l’onta dell’invisibilità, perché manca una vera rete di supporto ai caregiver che spesso si trovano ad affrontare situazioni molto più grandi di loro.
Non può esserci normalità fino a quando ogni aspetto verrà livellato sulle esigenze di ogni singolo individuo, perché questo individuo uno e unico possa esprimere le proprie potenzialità al meglio.
È arrivato il momento in cui la disabilità passi da condanna (per chi ne è portatore e per le famiglie o i partner che spesso devono rinunciare a moltissimo pur di garantire l’assistenza necessaria a chi non può essere autosufficiente) a semplice caratteristica, senza che questa predetermini una vita a perdere.
Per adesso c’è ancora necessità di urlare al modo come la fragilità, si essa fisica, psichica o sensoriale non sia una vergogna, necessitare di cure non sia degradante e una patologia non debba mai più essere utilizzata come insulto.