Nei momenti di stagnazione politica ritorna sempre di moda giocare all’Ulivo che fu. Un passatempo tradizionale che sembra ingolosire non poco i quotidiani scarni che, in questi tempo Gentiloni, devono accontentarsi dei doposcì di Salvini o dei grillini da Davos per riempire gli spazi. E così basta che Prodi ci dica che “l’esperienza dell’Ulivo non è irripetibile” per dare combustibile all’altro che chiede una sinistra unita contro i fascismi e il populismo e tutto il solito resto, lo stesso brodo su cui Pisapia ha issato le vele.
Ma attenzione: gli stessi incendiari teorici del tutti insieme sono gli stessi che domani scriveranno di una sinistra incapace di disincagliarsi dall’eterno dibattito sul rapporto con il Partito Democratico e saranno sempre loro a dirci che a sinistra si discute troppo di alleanze e troppo poco di contenuti. Innestano il circolo vizioso, lo condannano, lo rimpiangono, lo reinnestano, lo ricondannano e via così.
E fa niente se qualcuno ogni tanto, sommessamente, prova a fare notare che quelli erano tempi in cui il centrosinistra era di centrosinistra davvero e combatteva proprio per questo una visione del mondo così vicina al centrosinistra di oggi: sottolineare le differenze (soprattutto quando non sono loro a farlo) è un atteggiamento bollato come schizzinoseria e fine del discorso.
Perché se l’Ulivo che rimpiangiamo è una coalizione che tiene a cuore i diritti del lavoro, il superamento delle diseguaglianze, un’Europa dei popoli, una reale progressività fiscale, la lotta alla povertà, lo scioglimento dei lacci con le banche capace di guadagnare la maggioranza del Paese, beh, allora il progetto è di tutti, ma proprio tutti, da queste parti. Senza bisogno di particolari sofismi.
Altrimenti l’Ulivo è solo un Salice. Piangente.