[vc_row][vc_column][vc_column_text]Ieri la Corte Costituzionale si è pronunciata sul cosiddetto ergastolo ostativo, dichiarandone la parziale incostituzionalità. Vale la pena, per non sbagliare, partire dal comunicato stampa della Corte stessa:
La Corte costituzionale si è riunita oggi in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sulla legittimità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia. In entrambi i casi, si trattava di due persone condannate all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che a conclusione della discussione le questioni sono state accolte nei seguenti termini. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. In questo caso, la Corte ‑pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti ‑ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
La decisione segue la recente pronunzia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) la quale aveva rigettato il ricorso dell’Italia contro una sua sentenza, di condanna del nostro Paese, resa nel giugno scorso, nella quale affermava che l’ergastolo ostativo si poneva in contrasto con l’art. 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, con ciò negando di fatto la possibilità per il detenuto di intraprendere un percorso rieducativo.
L’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario prevedeva (prima dell’intervento in oggetto) che “L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58 ter della presente legge (…)” (segue l’elenco dei delitti, fra cui principalmente, ma non solo, quelli di mafia e terrorismo).
Da ieri, non è più necessaria la collaborazione, non esiste più l’automatismo, ma il magistrato di sorveglianza valuterà caso per caso ogni richiesta e potrà accoglierla ma solo, vale la pena ripeterlo, “se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo.”
Personalmente condivido la pronunzia della Corte, anche perché credo che non sussista alcun pericolo reale circa la paventata uscita dal carcere di pericolosi mafiosi.
I requisiti sono stringenti, ci sarà una valutazione della magistratura di sorveglianza, e si elimina solo un automatismo e nessuno mancherà per questo di rispetto a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e agli altri magistrati che hanno dato la vita per combattere la mafia.
Un mafioso, come qualsiasi altro reo, prima deve distaccarsi dall’organizzazione alla quale apparteneva, dandone prova con elementi concreti, dimostrando anche che non sussiste pericolo di rientro nella medesima, e partecipando a un percorso rieducativo. Poi, e solo in queste condizioni potrà ottenere i benefici, senza necessariamente diventare collaboratore di giustizia.
Questa la questione in diritto, e tutte le opinioni, sempre in diritto, sono legittime, purchè siano attinenti al tema e siano motivate. Poi ci sono le opinioni politiche, quelle di solito più strumentali, quelle che per uno scopo di solito banalmente elettorale aggiungono conseguenze inesistenti, ma molto evocative, per parlare al proprio elettorato, in particolare alla sua pancia.
Ad esempio Matteo Salvini (che discetta di tutto meno che dei famosi 49 milioni e del caso Savoini) ha dichiarato in una diretta Facebook con la consueta finezza: “Un permesso premio a chi ha massacrato, a mafiosi che hanno massacrato? Ma col ca… che gli do il permesso. Non vedo l’ora di tornare al governo per sistemare un po’ di cose”, come se il governo (quanto meno nell’attuale assetto democratico) potesse influire sulle sentenze della Corte Costituzionale.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’ex socio Luigi Di Maio: “Rispetto la sentenza, ma il Movimento 5 stelle non è d’accordo e faremo il possibile affinché quelli che erano in carcere con regime di ergastolo ostativo ci rimangano finché non si prendono altri mafiosi” (e qui non si capisce bene il senso, come se fosse necessario un numero minimo di mafiosi in carcere) “Si dice che quel regime violi alcuni diritti fondamentali della persona, ma quelle non sono persone, sono animali che hanno ucciso e sciolto nell’acido bambini”.
Non vale la pena commentare, vista la padronanza assoluta dei nostri principi costituzionali. Ma, diciamo la verità, nessuno si stupisce di queste dichiarazioni, nessuno si aspetta neppure che questi personaggi conoscano, o almeno leggano, la normativa di cui parlano. Invece, quando ho sentito al GR1 delle 8 di stamattina Nicola Zingaretti (il nuovo socio di governo) affermare che, pur rispettandola, la sentenza gli sembrava “stravagante” sinceramente non me l’aspettavo.
Se avessi avuto il suo numero, l’avrei chiamato: “Ma come stravagante? In quale aspetto esattamente? Procedimentale? Sostanziale?”.
Perché nella vita si possono avere opinioni diverse, e, come a scuola, non si può pretendere che chi ogni giorno fa a pugni con l’italiano, o con il russo e l’aritmetica, possa esprimere un giudizio compiuto su una questione giuridica complessa. Ma il segretario del Partito Democratico non può usare una terminologia del genere. Spiegaci, Nicola, con parole tue, perché la sentenza dell’organo cardine del nostro sistema democratico sarebbe “stravagante”, possibilmente in diritto.
Perché tu ne hai la possibilità, i congiuntivi non li sbagli, nel tuo partito ci sono giuristi e costituzionalisti.
Perché così, caro Nicola, sembra solo una lisciata di pelo all’elettorato che insorge, quando invece all’elettorato che insorge le cose andrebbero semplicemente spiegate.
Perché poi se nessuno spiega, e insorge davvero, mica viene da te, ma va dagli altri due.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]