«Hello my friend!». Ogni bambino ti chiama così, mentre ti prende la mano per accompagnarti alla sua tenda o per darti un abbraccio.
Sorridono tutti, quasi tutti. Qualcuno è troppo piccolo e la sua testa è bloccata da troppe cose brutte, così a due anni non parla, non cammina, non sorride, non ti guarda. Aspetta lì, seduto su un passeggino, in attesa che il mondo si accorga di lui e qualche governo gli trovi il suo posto, in quel mondo, che è suo quanto mio.
In una tenda, un vecchio Imam ferito dall’Isis sta facendo scuola ai bambini. Insegna loro l’alfabeto arabo e la traduzione inglese. Uno dei piccoli allievi si alza, mi prende per mano e mi porta alla sua tenda. Avrà 2, forse 3 anni. Mi fa sedere e mi offre il suo bicchiere di succo di frutta. Sua madre è giovanissima, mi racconta che ha 5 figli ed è sola, il marito è stato ucciso con un colpo alla testa da Daesh. Giustiziato.
Probabilmente lui non aveva i soldi come Mohamar, che ha dovuto pagare 100.000 dollari perché suo padre beveva alcolici e, in assenza di riscatto, avrebbero tagliato la testa al suo piccolo Omar. Che oggi, bello come un attore, ci traduce in inglese il racconto commosso del padre.
Tanti i racconti sulle crudeltà di Daesh, tante le vittime di tutte le età. Come un ragazzo che era stato arruolato nell’Isis appena si sono impossessati della sua città, ma è riuscito a scappare dal commando e un cecchino l’ha preso su una gamba. Ora ha un ferro enorme al posto del femore ed è completamente paralizzato. Passa la giornata steso in una tenda, aspettando. Cosa non si sa. Ma anche lui aspetta. Qualcosa succederà, qualcosa deve succedere. Per forza.
O come una bambina che mi fa vedere la sua cicatrice bianca sulla fronte, si mette a ridere. E poi si mette a piangere e scappa. Tanti anche i bambini che hanno comportamenti così. «Crazy», mi spiegano i fratelli maggiori, ma i pazzi non sono loro. I pazzi sono quelli che tengono bambini con l’inferno in testa in questi luoghi di orrore, chiamati campi militari.
Amira invece ha un anno e mezzo ed è cieca, ma ride se la riempi di baci. I suoi genitori sono ragazzini che ci chiedono se possiamo fare qualcosa per lei. Niente, my friend. Non possiamo fare niente.
In pochi minuti siamo circondati da decine di persone con bambini da far vedere, con esami, lastre, medicine. Mai come oggi vorrei essere un medico, un’infermiera, un dentista o anche uno studente con qualche esame sulle spalle, per provare a dare qualche risposta, per provare a sentirmi meno inutile.
Niente, my friend. Non posso fare niente. Se non prometterti di mettercela tutta per spiegare quello che dovrebbe essere di un’evidenza imbarazzante: che in questo mondo c’è spazio per tutti. E che non sarà chiudendo i confini e murandoti viva con la tua bambina cieca e un militare all’ingresso che lo renderemo più sicuro, più umano, più giusto.