Martedì 14 Febbraio il Parlamento Europeo ha approvato in via definitiva il divieto di vendere automobili nuove con motore a combustione interna (quindi diesel, benzina, metano e simili) a partire dal 1° Gennaio 2035. Questa misura era stata inizialmente presentata dalla Commissione europea a fine 2020 come parte del progetto “Fit for 55”, un insieme di proposte il cui obiettivo complessivo è ridurre le emissioni di CO2 dell’intera Unione europea del 55% rispetto al dato del 1990, e quello del Parlamento europeo era il penultimo Sì definitivo necessario perché questo specifico pezzo di proposta fosse accettata. L’ultimo avrebbe dovuto essere il voto da parte del Consiglio dell’Unione europea, previsto per il 7 Marzo, ma è stato rinviato a data da destinarsi perché i ministri di Italia, Germania, Polonia e Bulgaria hanno annunciato posizioni contrarie, di fatto affossando la proposta.
Le reazioni
Questo rinvio è stato accolto come una vittoria dal governo italiano e da una parte di quello tedesco, in nome di una ipotetica “neutralità tecnologica” delle decisioni dell’Unione che dovrebbe riconoscere un ruolo a tutte le possibili alternative a emissioni zero. In realtà la neutralità c’è già, in quanto la direttiva approvata al Parlamento europeo non prevede nessuna specifica tecnologia, se non l’abbandono del motore a combustione interna (o ICE, internal combustion engine, in breve).
La norma non avrebbe discriminato fra batterie ed idrogeno, né avrebbe impedito l’inserimento di qualsiasi altra tecnologia che si dovesse rivelare più efficiente di quelle attualmente a disposizione, ma di fatto favorirebbe il motore elettrico. Ciò può sembrare una costrizione, ma gli ICE non possono mai avere zero emissioni di gas e polveri nocive (ad eccezione del motore a idrogeno, che però è già stato testato e scartato dall’industria automobilistica), in quanto insieme alla CO2 dai tubi di scappamento escono molte delle sostanze che contribuiscono all’inquinamento ambientale delle nostre città, responsabili ogni anno di decine di migliaia di decessi e milioni di persone con patologie respiratorie solo in Italia. D’altro canto, anche considerando solo le emissioni di CO2, le alternative proposte dalla politica come “carburanti green” in questi giorni sono comunque insensate, opzioni scartate da tempo dall’industria: biocarburanti e carburanti sintetici. I primi, essendo estratti da coltivazioni intensive, sono in competizione sia con l’agricoltura sia con i boschi, aumentando i rischi di deforestazione e sono nella pratica impossibili da produrre su scala sufficiente ampia, soprattutto se si vogliono considerare preferenzialmente filiere europee. I secondi hanno invece costi non accessibili per il trasporto di massa, in quanto richiedono grandissime quantità di energia a zero emissioni per convertire la CO2 negli idrocarburi che compongono diesel e benzina, potenzialmente decuplicando il costo alla pompa del carburante e complicando ulteriormente la transizione del sistema elettrico nazionale.
A questo si aggiungono i dati sulle auto elettriche a batteria degli ultimi anni. Nell’ultimo decennio il prezzo delle auto elettriche si è più che dimezzato, arrivando a prezzi simili a quelli delle auto a combustione interna, soprattutto nei segmenti A e B (auto da città che non richiedono autonomie elevate, perché considerate “seconde macchine”), E ed F (auto di lusso in cui il prezzo delle batterie impatta meno in proporzione). Questa equivalenza è destinata ad estendersi a tutte le categorie di auto ben prima del 2035, con la stragrande maggioranza dei marchi occidentali che prevedono di elettrificare tutti i loro modelli non oltre il 2030, e già nei prossimi 5 anni si prevede che l’acquisto di un’auto elettrica sarà più economico di quello di un’auto diesel o benzina, con autonomie e velocità di ricarica sufficienti a qualsiasi lungo viaggio e significativi risparmi al consumatore sulla manutenzione e sul “carburante”, oltre ad avere prestazioni e comfort mediamente superiori ad auto a benzina di pari classe.
Le motivazioni di un NO insensato
Ma allora, se comprare un’auto elettrica sarà più economico e piacevole ben prima del 2035 a cosa serve la messa al bando dell’alternativa? E perché opporsi?
La vera motivazione del bando è da ricercarsi in prima battuta nel piano Fit for 55 che lo contiene: le emissioni di CO2 dovute ai trasporti sono estremamente elevate, molto più elevate in media di quelle dovute alla produzione di elettricità, e impossibili da abbassare significativamente senza passare dall’elettrificazione del trasporto stesso, e ovviamente dalla decarbonizzazione del settore elettrico. Anche progetti di riduzione dell’uso dell’automobile, per quanto importanti per la qualità della vita e dell’aria nelle città, non possono avere lo stesso effetto sulle emissioni. Per poter pianificare le infrastrutture necessarie alla transizione e prevedere l’effettiva quantità di CO2 emessa negli anni a venire, è quindi importante fare delle previsioni e mettere dei limiti, così da poter gestire meglio gli obiettivi prima della scadenza definitiva. Da questo punto di vista, quindi, per la stragrande maggioranza di noi il bando sarà assolutamente ininfluente, perché nel 2035 comunque nessuna famiglia penserà di comprare un’auto nuova a benzina, così come nessuno di noi oggi penserebbe mai di comprare un televisore nuovo a tubo catodico – la tecnologia è andata avanti e nessuno di noi sente il bisogno di tornare indietro.
Ma chi spende per un’automobile più di quanto noi potremmo mai pensare di spendere su una casa, da quell’automobile vuole essere gratificato da uno status che il suo possesso conferisce. Uno status inquinante, una forma simbolica del potere fossile. La supercar è un simbolo di successo, tanto più evidente se può essere scandito dal rombo di dodici cilindri. Già il governo precedente, con il mai abbastanza criticato ministro Cingolani, aveva parlato di escludere le auto ad alte prestazioni dal bando ai motori a benzina, ma l’attuale ministro Frattin è andato oltre, nascondendosi dietro la foglia di fico della “neutralità tecnologica” per trasformare l’espressione del potere fossile del 10% più ricco della popolazione in una battaglia ideologica contro l’equilibrio climatico del pianeta. Ma questa battaglia avrà delle conseguenze per noi, per quel 90% che le Ferrari le vede solo da fuori.
Le conseguenze di una scelta stupida
Eliminare la messa al bando significa meno investimenti sulle infrastrutture, quindi chi vorrà comprare un’auto elettrica perché più economica fra 5 o 10 anni si vedrà costretto a fare più fatica nel ricaricarla, e sarà condizionato nella scelta verso la più inquinante alternativa a benzina. Eliminare il bando significa mettere a rischio gli obiettivi di decarbonizzazione del paese, perché se non ci sono infrastrutture una parte più ampia della popolazione continuerà a scegliere auto a benzina anche quando la tecnologia più matura sarà l’elettrico (o sarà costretta a rimanere su auto più vecchie, non potendo virare sulle più economiche elettriche), contribuendo all’incremento delle temperature, alla siccità e agli eventi climatici estremi che già viviamo e che già impattano sulla nostra vita e sulla nostra economia. Ma soprattutto eliminare il bando significa indirizzare la media classe dirigente italiana verso un’economia senza futuro e che la porterà al collasso: tante aziende di piccole e medie dimensioni del settore automotive che si preparavano al balzo all’elettrico ora potrebbero tentennare, rimanendo nella comodità delle tecnologie e competenze che già conoscono. Ma l’auto elettrica è già mainstream e diventerà presto la forza principale del mercato, e aspettare è una politica industriale suicida, che porterà inevitabilmente la nostra industria al fallimento.
La domanda che ci dobbiamo porre noi, il 90% che non ha mai posseduto e non possederà mai un esercito di supercar dal rombo virile, è questo: siamo disposti noi a sacrificare il nostro futuro, la nostra economia, il nostro pianeta, per soddisfare gli appetiti di chi già oggi ha molto più di noi e non ha nessuna intenzione di condividerlo?
La transizione dovrebbe essere guidata, non negata
In Italia, a sentir parlare di auto elettrica, subito si levano gli annunci della chiusura della filiera della ricambistica del distretto torinese, in gran parte dedicata ai motori diesel. Nel 2021, le 2.202 imprese che compongono l’universo della componentistica automotive italiana hanno impiegato nel settore oltre 168.000 addetti e generato un fatturato stimato, ad esso direttamente attribuibile, pari a 54,3 mld di euro (dati 2021 — Osservatorio sulla componentistica automotive italiana, ed. 2022). La percentuale dei fornitori posizionati prevalentemente sul comparto dei motori benzina e diesel permane alto (il 73,8% delle imprese che partecipano al sondaggio dell’Osservatorio), come consistente è la quota per le alimentazioni a metano e/o GPL (il 40,1%). La buona notizia è che la filiera non è di certo stata a guardare. Sicuramente la presenza di una scadenza precisa per la messa al bando del motore endotermico avrebbe consolidato questa tendenza, che ha visto sinora aumentare il coinvolgimento delle imprese del settore in progetti sia per il powertrain elettrico (il 29,4%, a fronte del 27,1% della precedente rilevazione), sia per quello ibrido (il 30,3% contro il 26,7% del triennio 2018–2020). L’82,6% delle imprese intervistate dichiara che la propria competitività risulterà in aumento o risulterà invariata con l’arrivo delle nuove tecnologie.
Appare chiaro come il settore stia lavorando per prepararsi alla transizione, non subirla bensì guidarla, confermando la vocazione per la ricerca e la produzione di eccellenza. Quel che manca è al solito una politica industriale che incentivi la riconversione produttiva e delle competenze verso il nuovo paradigma della mobilità sostenibile. È per questa ragione che il rischio di generare tensioni sociali, paure, incertezze, è alto. Questa condizione tende a rafforzare la risposta conservativa da parte dei gruppi di interesse, non solo da parte delle imprese ma anche delle organizzazioni dei lavoratori.
Ma quale modello di mobilità sostenibile?
Alla base di questa importante transizione, uno dei capisaldi del piano Fit For 55, dovrebbe esserci un modello di mobilità sostenibile che non sia basato esclusivamente sull’auto privata, almeno non nei centri metropolitani. Lo abbiamo scritto nel nostro documento politico-elettorale, ‘La Possibile Italia’: «Ogni capoluogo e ogni città metropolitana deve progettare una nuova mobilità lungo tre assi: ciclovie, filovie/ferrovie e silicio (inteso come uso delle tecnologie informatiche), con l’obiettivo di muovere velocemente e in sicurezza fino al 100% della popolazione cittadina, ogni giorno. Il beneficio è diretto e si configura in una riduzione immediata degli inquinanti dell’aria (PM 2.5 e PM 10) […] Riteniamo necessari ingenti investimenti sulla rete urbana, dando nuovo respiro alle reti del trasporto su ferro in tutte le città, i) estendendo le reti metropolitane, tanto con la costruzione di nuove linee quanto con l’ampliamento di quelle esistenti, ii) introducendo linee tramviarie veloci e trasformando linee ferroviarie urbane in linee metropolitane, iii) creando le reti ciclabili e integrando i servizi di mobilità, iv) sostituendo nell’arco di sei anni 6000 autobus con altrettanti nuovi e completamente elettrici in modo da togliere dalla circolazione parte degli autobus vecchi e inquinanti.
Per finanziare tali azioni, sono già operativi i seguenti strumenti: Fondo europeo per gli investimenti strategici FEIS; Fondi strutturali e di investimento europei — fondi SIE; Azioni urbane innovative UIA; URBACT; Horizon 2020. Occorre solo mettere in campo la capacità di progettazione degli interventi».
A qualcuno è bastato sventolare lo spettro della cattiva Europa che ci vuole togliere “il piacere” di guidare la nostra auto per scongiurare una messa al bando che sarebbe stata da stimolo agli investimenti nella mobilità dolce, nella mobilità pubblica, nell’auto elettrica. La retrotopia non aiuta la decarbonizzazione e ci avvicina sempre di più sia al disastro climatico che a quello economico.