Leggo il titolo sull’Huffington e strabuzzo gli occhi. Spero in uno scellerato titolista in azione, ccorro veloce il testo ma invece no, eccola lì, la frase di Dario Nardella:
“Certo, se l’Italia non cambia rotta in modo deciso sul tema della natalità non ha futuro. Lanciamo una sfida ambiziosa: lavoriamo per incrementare l’attuale livello di natalità da 1,34 a 2 figli per donna”.
Controllo su altri giornali. È proprio così. Lo stesso Nardella ha rilanciato allegramente l’intervista che mi aveva fatto rabbrividire. “Da 1,34 a 2 figli per donna”.
Sette sindaci maschi, che si divertono con camerateschi e virili siparietti da bar di terz’ordine, scelgono (con un’incredibile mira e senso dell’opportunità) di usare un indice statistico proprio dell’analisi demografica del Paese per legare il benessere di una nazione alla “vitalità” delle donne in termini riproduttivi, come se la correlazione fosse evidente, come se parlassero della resa agricola di un terreno in quintali di grano per ettaro o del latte atteso per unità bovina.
Dopo la campagna sulla fertilità più retrograda della storia, dopo la comparsa del dipartimento “mamme” nel PD, dopo la dirigente romana (sempre del PD) che pensa a come “dare sostegno alle mamme per continuare la razza italiana”, siamo giunti ad un passo dai corpi delle donne che diventano strumenti per “dare figli alla Patria”, probabilmente per contenere le invasioni degli infedeli.
Ed eccoci di fronte uno di quei casi, sempre più frequenti, in cui mi cascano talmente le braccia, che non so più da che parte cominciare per spiegare che no, non va bene per niente e che sì, le parole e le immagini che si scelgono sono importanti, specie in un un Paese in cui abbiamo una questione maschile di dimensioni titaniche da gestire, che ci sta trascinando indietro di decenni in termini di consapevolezza, di lessico e di rispetto dei diritti acquisiti.
Mi piacerebbe sentir parlare di questo. Come anche di parità salariale, di lotta senza quartiere alle discriminazioni e alla violenza, di accesso all’istruzione, alla formazione e alla cultura, di inclusione ed integrazione, di investimenti in settori che creano lavoro stabile e portano valore sociale ed ambientale, oltre che economico.
Di come si vuole lavorare alla costruzione di un futuro di cui non dover avere paura, insomma.
E invece no. Ci tocca digerire questi siparietti sospesi tra il cabaret e la nostalgia dell’istituto Luce, mentre le sfide del nuovo millennio hanno già sfondato la porta a forza di bussare.
E allora giù, a lavorare a testa bassa, buttando il cuore oltre la rabbia, che se vogliamo #giornimigliori, non ci resta che rimboccarci le maniche e costruirceli con le nostre mani.