[vc_row][vc_column][vc_column_text]Le reazioni della sinistra — in un senso molto molto lato, andando dagli antiliberisti fino ai neocentristi, passando per i commentatori dei grandi gruppi editoriali — di fronte alle pirotecniche quanto prevedibili proposte economiche contenute nelle bozze e nelle versioni in bella del contratto fra M5S e Lega rivelano riflessi pavloviani, e sono probabilmente sbagliate entrambe.
Se infatti la scelta è fra dar ragione ai populisti (populisti di destra, per la precisione) sulla base di istanze popolari oggettive e difendere rigorismo e austerità (rigorismo e austerità di destra, per altrettanta precisione), tanto vale rassegnarsi da subito all’idea che i populisti governeranno un ventennio.
Sbaglia infatti chi da sinistra si scopre nazionalista e protezionista, critico sul rigore dei conti pubblici e sul rispetto degli impegni, pronto a incolpare i mercati cattivi e l’Europa crudele, e sbaglia chi invece, con la cattiva coscienza di chi in questi anni ha fatto parte di governi di larghe intese ed accettato la politica del “there is no alternative”, difende politiche comunitarie che in questi anni si sono dimostrate miopi e hanno creato disuguaglianze e povertà altrettanto oggettive.
Entrambe le parti sembrano doversi giustificare come se a governare l’Europa in questi anni fosse stata la sinistra, che ora deve redimersi dai propri peccati: solo che non è così. L’Europa è stata governata da destra, al massimo, appunto, in uno schema di larghe intese a cui parte della sinistra con vocazione centrista si è piegata: e si è piegata lei, non il contrario. Un’Europa a forte trazione germanica, peraltro, guidata coi suoi inflessibili ministri e commissari da una leader come Angela Merkel che è in carica ininterrottamente dal 2007 e che, nel caso qualcuno avesse il dubbio, non proviene certo dalla lunga tradizione della sinistra tedesca.
Non serve quindi a nulla scandalizzarsi o scoprirsi improvvisamente tifosi entusiasti se, dopo che alle elezioni prevalgono forze che vogliono sforare il tetto del deficit, si propongono di passare dalla teoria alla pratica: sono proposte per le quali hanno preso tutti quei voti, è normale che dicano di volerle realizzare. Servirebbe invece chiedersi: sforare per fare cosa, esattamente?
Chiedere all’Europa più flessibilità, o minacciarla di prendersela a prescindere, per fare la flat tax (o per buttarla in mancette tipo 80 euro, come ha fatto il governo Renzi) non produrrà e non ha prodotto niente, nessun investimento produttivo, nessun benessere, e nemmeno nessun apprezzabile aumento dei consumi, solo puro e semplice aumento delle diseguaglianze. Insistere nella difesa dello schema rigorista, che persino per economisti di matrice liberale ha causato — in tutti i sensi — la tragedia greca, paralizzando la capacità di investimento pubblico e mortificando quel sistema di welfare che era un vanto continentale agli occhi del mondo, è altrettanto cretino.
Una sinistra seria e con l’ambizione del governo, specialmente se diffusa in tutti i Paesi membri e unita in un progetto transnazionale, saprebbe spiegare che si può chiedere più margine nella spesa pubblica non per distribuire mancette elettorali o per abbassare le tasse ai ricchi, ma per fare investimenti produttivi. Che l’austerità si può contestare anche facendo una lotta seria agli sprechi e alla spesa improduttiva. Un grande piano europeo di modernizzazione ecologica costerebbe molto oggi, ma darebbe anche molto lavoro e fra pochi anni produrrebbe risparmi e ulteriori investimenti. La flat tax e gli 80 euro non producono nulla.
Se quella sinistra governasse l’Europa, magari si troverebbe d’accordo a distinguere la spesa degli stati membri a seconda dello scopo: e magari potrebbe allargare i cordoni della borsa se ciò che ne esce servisse a investire nella scuola pubblica, nella manutenzione del territorio, nel potenziamento delle infrastrutture diffuse più che nella cantierizzazione delle grandi opere, nella trasformazione digitale. E potrebbe sanzionare non secondo criteri generici, ma a seconda di quella qualità, della serietà dell’impianto economico degli investimenti, colpendo clientele e inefficienze.
Certo queste sono cose più difficili da spiegare, è più semplice dire che l’Europa è cattiva e che le tasse sono ingiuste. Certo bisognerebbe contrastare la propaganda sottile ma lunga decenni che ha convinto i cittadini che se puoi permettertela la scuola privata è meglio di quella pubblica, la sanità privata — ovviamente sovvenzionata — è meglio della vecchia e lenta mutua, e pazienza per chi invece non se lo può permettere: si salvi chi può, chi non può al massimo potrà concedersi di votare qualcuno che promette di cambiare tutto senza specificare che intende farlo sempre e comunque sulla sua pelle.
Certo è complicato, insomma, mentre invece adattarsi in un modo o nell’altro al pensiero dominante è molto più semplice. Ma soccombere al dualismo di questo dibattito insulso porta ad allinearsi all’impianto teorico di qualcun altro, allo spin dei propri competitor, e questo non può mai essere un bene. Nessuna proposta politica ha mai prevalso senza essere capace di costruire e imporre un pensiero proprio, forte, certamente non l’ha fatto modellandosi su quello altrui.
Il lavoro da fare è perciò molto, ma da qualche parte si dovrà pur cominciare: e possibilmente già a partire da come la sinistra si presenterà alle elezioni europee del 2019, appunto.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]