Mentre è sicuramente interessante che nel corso di una campagna elettorale come quella per la città di Roma si sia acceso il dibattito sulle questioni museali, la proposta di un Museo Unico — “come il Louvre” — avanzata da Carlo Calenda non solo ha delle criticità logiche e logistiche, ma è la spia di un modo di intendere la cultura e tutto quello che ruota intorno a questo segmento fondamentale delle nostre città in un’ottica centralizzata e “mega”: “mega-museo”, “mega-mostra”, “mega-evento”. Tutti concetti su cui molto si sta dibattendo e riflettendo negli ultimi anni, cercando – anche se non sempre efficacemente – di invertire proprio questa tendenza, che determina lo svuotamento museale, culturale e artistico delle altre zone urbane.
Anche evitando di approfondire in questa sede i motivi storici e pratici che Calenda non vede o sceglie di non vedere, basti pensare al fatto che in molti luoghi e a Roma in particolare la storia dei Musei stessi e delle collezioni è parte integrante della storia della città, quella stessa storia a cui il candidato sindaco si professa tanto interessato. Senza contare che le collezioni, oltre ad avere una storia propria, hanno anche pertinenze, vincoli e condizioni legali e di conservazione differenti. Inoltre, la quantità di reperti di cui stiamo parlando è tale per cui, anche volendo assecondare il ragionamento di Calenda, sarebbe letteralmente impossibile trovare un luogo e un allestimento in grado di contenere anche solo una selezione ragionata (cosa che comunque andrebbe a incontrare tutte le problematiche accennate prima).
D’altra parte, che la proposta sia messa insieme per destare scalpore e ritagliarsi uno spazio elettorale è in linea con la strategia comunicativa aggressiva di Calenda, e potrebbe anche servire come occasione per aprire un dibattito serio, se non fosse viziata già in partenza non solo dai tempi e modi della campagna elettorale, ma anche dal fatto che i dati citati da Calenda a supporto della sua tesi non sono nemmeno precisi, come spiega Pagella Politica in merito alla sua dichiarazione che “Capitolini, Palazzo Massimo, Palazzo Altemps e Fori+Palatino messi tutti insieme hanno meno visitatori del museo Egizio di Torino”.
La proposta di Calenda, in altre parole, cancella l’idea di base che la cultura è un bene comune e che in quanto tale deve essere diffuso, accessibile, universalmente garantito. Questo ovviamente non significa che non si possano e debbano affrontare le difficoltà della rete museale esistente, quali possono essere per Roma, ad esempio, accessibilità, trasporto pubblico e collegamenti tra i vari quartieri e municipi. Al contrario, significa impegnarsi perché le risorse e la pianificazione vengano investite in questa direzione, per migliorare la vita in città a chi visita i musei e anche a tutte e tutti gli altri. Significa anche dare dignità e giusta retribuzione a lavoratori e lavoratrici di tutto il settore culturale, troppo spesso precari, sfruttati, in balia di condizioni contrattuali e di lavoro frammentarie e umilianti. Significa prendere coscienza che serve lavorare per implementare i servizi che mancano o non sono sufficienti per fare in modo che sia tutta la città a essere un museo, invece di un percorso a ostacoli tra un’attrazione e l’altra, lasciando che la “Cultura” – rigidamente definita su una scala di popolarità e non di effettivo interesse — finisca per essere prerequisito dei centri in uno schema che rischia di derubare le periferie di zone di aggregazione.
Negli scorsi mesi, in un lavoro di grande e importante riflessione, studio ed elaborazione per le Amministrative di Milano, abbiamo costruito una piattaforma LGBTIQ+, Orgoglio In Comune, ispirata alle politiche municipali di tante altre città e capitali europee. Uno strumento che con Possibile stiamo mettendo a disposizione di tutti i nostri comitati che si stanno confrontando con le elezioni amministrative.
Al suo interno una parte determinante è stata quella dedicata al progetto “365 giorni di Cultura Queer” che ha due obiettivi che viaggiano insieme: da un lato estendere l’offerta culturale in chiave queer e transfemminista al di là di festival e delle iniziative già esistenti (primo tra tutti il Pride e la Pride Week) affinché possa coprire l’intero anno, dall’altro la necessità di portare questo palinsesto anche fuori dai luoghi “convenzionali” puntando proprio sulle periferie, luoghi che non devono essere dimenticati, tanto meno marchiati con l’assenza di spazi fisici dedicati alla cultura, all’arte, ai servizi ai cittadinǝ.
In questo senso abbiamo pensato che la precedenza andasse a due elementi:
- il primo, quello di un censimento degli spazi pubblici di competenza comunale/municipale, oggi in disuso ma che potrebbero rappresentare luoghi dedicati alla cultura, alle associazioni e ai servizi a essi collegati. Un modo per far rivivere quegli spazi in un’ottica di bene comune, collettivo, finalizzato anche a essere presidio di democrazia dove, purtroppo spesso, le istituzioni non riescono ad arrivare.
- Il secondo, una call-to-action capace di mettere allo stesso tavolo le istituzioni, gli artisti, i collettivi, le associazioni per costruire un progetto condiviso, una visione culturale e sociale capace di dare corpo e anima per 365 giorni l’anno a questo progetto. Una sorta di grande co-working cittadino capace, anche, di ricostruire quel patto sociale di cittadinanza che è alla base del principio di bene comune.
Sono progetti che esistono in tante realtà europee e che potrebbero senza problemi esistere anche nelle nostre città. Serve solo capovolgere il punto di vista, ribaltare la piramide. E serve investire in progetti culturali di ampio raggio coinvolgendo gli attori sociali che in prima persona si occupano di questo.
È una proposta che con Possibile porteremo in giro in tutta Italia, non solo in chiave queer e transfemminista ma come principio generale: cultura diffusa, accessibile, gratuita, con una funzione anche sociale.
Per questo è facile intuire che, rispetto a Calenda e chi oggi lo applaude, siamo su universi opposti.
Gianmarco Capogna
Francesca Druetti