[vc_row][vc_column][vc_column_text]Sono trascorsi 12 mesi dalla nascita di Liberi e Uguali. Un progetto che ci ha visto protagonisti fin dalle prime fasi, convinti che la costruzione di un campo aperto e partecipato in cui unire le forze a sinistra fosse la strada giusta per offrire rappresentanza alle tante persone deluse dalle pessime politiche portate avanti dal governo a guida Pd.
Purtroppo tutte le premesse che ci avevano portato a credere in questo progetto sono state vanificate da logiche e modalità che non ci sono mai appartenute e che nel tempo abbiamo denunciato inascoltati fino all’inevitabile, quanto devastante, esito elettorale. Possibile ha immediatamente aperto una fase di profonda riflessione, a cui sono seguite le dimissioni del segretario Giuseppe Civati e si è aperta la conseguente fase congressuale, da cui è emerso, oltre a una nuova segreteria, la volontà di non sciogliere Possibile senza alcuna garanzia che i il processo fosse condiviso e partecipato. Nel momento in cui si è aperta la fase costituente del partito-Leu abbiamo quindi espresso tutte le criticità che quel percorso andava a cristallizzare e ne siamo usciti senza lasciar spazio ad alcuna ambiguità.
Chiamati di nuovo in causa alla vigilia dei congressi delle diverse forze che avevano costituito Liberi e Uguali, chi per Possibile ha seguito in prima persona tutti i momenti che hanno caratterizzato quel progetto, ricostruisce il nostro punto di vista.
Beatrice Brignone
La cronaca politica di queste settimane ha raccontato l’evoluzione di quello che doveva essere il processo costituente di Liberi e Uguali, da cui alla fine sembrano essersi sfilati sia Mdp che Sinistra italiana, per ragioni complicate e comunque squisitamente loro, e che domani sfocerà in un’assemblea di comitati autoconvocati con la benedizione di Pietro Grasso. Essere tirati nuovamente in ballo per la nostra decisione di non aderire fin dall’inizio, sei mesi fa, rende opportuno ricordarne i motivi, visto che dopotutto le preoccupazioni che la nostra Segretaria aveva espresso all’epoca si sono tutte rivelate corrette.
Allo stato attuale, il processo che nelle intenzioni doveva riunire i tre partiti che hanno dato vita a Leu, oltre ad altre realtà politiche e non che vi avevano preso parte, si concluderà con i tre partiti e tutti gli altri che andranno avanti più o meno come prima, e la probabilità che ne nasca un quarto. Che è esattamente ciò che avevamo detto che sarebbe successo: e qualcuno dovrebbe anche prendersi la responsabilità, per questo.
La nostra posizione, la posizione di Possibile, era piuttosto semplice, in fondo: le elezioni sono andate male, e la convivenza tra noi altrettanto, semplicemente non ci sono le condizioni per avviare un congresso, una fase costituente per fare un soggetto unico, perché se lo si avvierà non solo acuirà le nostre divisioni, ma ne provocherà addirittura di ulteriori. Siamo riusciti a costituire un gruppo in Parlamento, concentriamoci su quello e lavoriamo sulle proposte, sui contenuti, e poi casomai vedremo se quel lavoro darà frutti. Si è fatto esattamente il contrario.
Far finta che questa previsione banalissima e puntualmente verificatasi non fosse vera — e arrivare a sostenere, come ha fatto qualcuno, che aver preso un milione di voti fosse un grande traguardo — è stata la prima, di queste gravi responsabilità.
In secondo luogo, rifiutarsi di concentrarsi sulla politica, a partire dal ruolo di Leu in Parlamento, all’opposizione, per occuparsi invece di una discussione sulla sua struttura, è stata una responsabilità ulteriore, e doppia. Primo, perché ha impedito di assumere un ruolo che parlasse al Paese con iniziative e compagne di contrasto a questo Governo. Secondo, perché ha ipocritamente vellicato la famosa base, ben sapendo che sarebbe stata buona di fronte alla prospettiva di un dibattito interno, anche se destinato al fallimento. Un dibattito che viene sempre annunciato come “aperto” alle forze migliori della società, quando si sa benissimo che non hanno nessuna intenzione di prendervi parte: e perché dovrebbero? Sarebbero accolte con diffidenza, e ne uscirebbero frustrate, come proprio l’esperienza di Leu dimostra. E quindi non solo questi sono processi che non attirano nessuno e non parlano a nessuno, ma allontanano anche chi vi partecipa, cosa anche questa puntualmente successa.
E questo è un problema che va purtroppo molto oltre quello che dopotutto è il transitorio ruolo di Leu nella storia della sinistra di questi anni. La verità è che da molto tempo qualsiasi tema, anche enorme, suscita nei militanti di sinistra il riflesso condizionato a buttarla in tribuna: “serve un grande partito della sinistra che riunisca tutti”, è la risposta automatica. Questo è il più grande degli inganni. Non perché non serva, anzi servirebbe, ma perché la grandissima parte di chi lo chiede non sarebbe disposto a votare moltissimi degli eventuali membri di questa grande unione, e Leu lo ha dimostrato plasticamente. Secondo, perché spesso chi lo chiede non è d’accordo praticamente su nulla: sulla Fornero, sull’Europa, sull’immigrazione, persino sul sovranismo. Non siamo d’accordo tra noi, grande (?) popolo della sinistra che dovrebbe unirsi, sulle infrastrutture, sulle politiche ambientali, sul ruolo dello Stato in economia, nemmeno sulle aperture domenicali. Non sono d’accordo tra di loro i partiti, e non sono d’accordo tra di loro gli esponenti principali interni agli stessi partiti, e non sono d’accordo nemmeno i militanti di base. Per tacere del fatto che molti fra loro sono ceto politico, hanno avuto responsabilità di governo — del Paese o del paesello, a scalare — in cui hanno incarnato un governismo pragmatico che molto spesso agiva facendo l’esatto contrario, di quanto si proporrebbero di fare oggi, e hanno quindi un gigantesco problema di credibilità. È per questo che le liste andavano fatte — come avevamo chiesto, inascoltati, ma soprattutto come Leu aveva promesso di fare — in modo diverso, è per questo che bisognava portare in Parlamento persone diverse, che venissero da esperienze inattaccabili (quanto sarebbe servito avere uno come Bartolo, il medico di Lampedusa, in un ruolo istituzionale e riconosciuto, in questi mesi?).
Ma nulla di tutto questo è successo, incrinando il rapporto fiduciario tra di noi in un modo difficilmente riparabile — non solo per la questione delle liste, ma anche banalmente per come è stata gestita la campagna elettorale, a dir poco disastrosa, e quel poco di spazio che era disponibile, e persino per come il misero risultato finale è stato raggiunto, nella delusione generale — e poi pretendendo di seppellire tutto in una discussione interna che non solo non parla a nessuno fuori da un gruppo sempre più esiguo di addetti, ma alla fine non è nemmeno avvenuta.
Ovviamente molti dei coinvolti non la penseranno così, ed è un peccato perché significa che continueranno a fare le stesse cose per chissà quanto tempo, ma la verità è che sono vittime della più grande delle illusioni, se non di una vera e propria truffa, su cui peraltro qualcuno ama speculare. Ma allora che fare? La domanda è legittima. La risposta di cui ci siamo convinti, noi di Possibile, è che bisogna fare politica, non fare partiti. Non dibattiti interni, che ci illudono di occuparci di qualcosa mentre là fuori il mondo va avanti in un’altra direzione. Il Paese è allo sbando — lo è da parecchio tempo — e non c’è che l’imbarazzo della scelta. Tanto vale lottare per ciò in cui si crede veramente, che almeno ha un po’ di spinta ideale, e sperare che su quel terreno, alla fine, ci si possa ritrovare, ma per davvero, con qualcosa di concreto da presentare agli elettori, che poi in fondo sarebbe questo, e non la realizzazione dell’ennesimo simbolo, lo scopo di tutta questa faccenda. Sarebbe il caso di ricordarselo, ogni tanto.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]