Alla fine Jean-Claude Juncker è riuscito a comporre il puzzle e a varare la sua Commissione, la cui missione è di affrontare tempi non facili per il continente.
L’Europa è ancora imprigionata tra una crisi, aggravata dallo spettro della deflazione che ricorda il decennio perso dal Giappone e la governance del Continente che deve approfondire l’integrazione ma è contestata dai movimenti no-euro che prendono voti alle elezioni europee.
Non è il caso di dilungarsi sul tema “mainstream” dell’economia affidata al socialista francese Pierre Moscovici con i due controllori popolari Jyrki Katainen (Finlandia) e Valdis Dombrovskis (Lituania): in verità la Commissione è formalmente la custode dei trattati e da questo fronte non arriverà mai l’indicazione di violare le regole, sia che si tratti di sforare il limite del 3% del deficit/PIL, sia che si tratti di immaginare ipotetiche flessibilità, come del resto la BCE ci ricorda periodicamente.
Per comporre il puzzle c’è stato bisogno ovviamente di grande bilanciamento: il britannico Jonathan Hill ai Mercati finanziari è un chiaro segnale a David Cameron di ammorbidire la sua posizione critica, Günther Oettinger per la Germania ottiene una delega di peso all’Agenda digitale che compende anche le Telecom. Miguel Arias Cañete (Spagna) avrà la responsabilità su Energia e cambiamenti climatici con tutto quello che comporta per il continente leader in questa lotta (anche se gli ambientalisti come Greenpeace contestano la sua vicinanza alle industrie petrolifere e temono un’indebolimento della politica ambientale), mentre Elżbieta Bieńkowska sarà responsabile di Mercato interno ed industria: un riconoscimento alla dinamicità dell’economia polacca. Altri posti chiave vanno alla svedese Cecilia Malmström al Commercio che dovrà condurre i negoziati sul trattato di libero scambio con gli USA, mentre la danese liberale Margrethe Vestager avrà il compito di fare il guardiano della Concorrenza rispetto a concentrazioni delle multinazionali. La delega alle Migrazioni e affari interni va ad un paese del mediterraneo: sarà Dimitri Avramopoulos a gestire il passaggio a livello europeo dell’azione verso i rifugiati (anche se la Grecia è stata accusata da Amnesty International di trattamenti inumani nei centri di permanenza ai confini con la Turchia), mentre il portoghese Carlos Moedas si aggiudica il portafoglio chiave della Ricerca e innovazione. Alcuni commissari designati sono destinati a non passare l’esame del Parlamento, ad esempio le azioni di governo dell’Ungherese Tibor Navracsics alla Cultura ed educazione sulle libertà di informazione e dei media non sono piaciute agli europarlamentari.
Il cambio vero però è nella nomina dei 7 vicepresidenti senza portafoglio che nelle intenzioni di Juncker dovrebbero coordinare delle squadre di progetto formate da più commissari: certo la previsione di avere un commissario per ogni stato membro non permette agilità alla Commisione ma la mossa può servire ad imbrigliare le posizioni più intransigenti e ad offrire a Juncker l’ultima parola su tutto. Una specie di premierato forte insomma che però potrebbe portare più conflittualità tra i gruppi di commissari che devono gestire le deleghe insieme. Federica Mogherini oltre al ruolo di Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza è l’unico vicepresidente assegnato ai grandi paesi e coordinerà una cellula di Commissari che si occuperanno dell’azione esterna: staremo a vedere quanto saprà incidere in un tema tipicamente riservato ai governi.
L’olandese Frans Timmermans diventerà il braccio destro di Juncker come Primo Vicepresidente: una sorta di sottosegretario alla presidenza che coordinerà il lavoro di tutta la Commissione. La mossa è centrale contro gli euroscettici: si tratta di un veterano della diplomazia europea che arriva da un paese spesso critico rispetto al potere dell’Europa.
“Dopo anni di crisi economica e riforme dolorose gli europei si aspettano un’economia in crescita, lavori sostenibili, più protezione sociale, confini sicuri, sicurezza energetica e opportunità digitali. Oggi presento la squadra che riporterà l’Europa sul sentiero della crescita e della creazione di lavoro”. La dichiarazione programmatica dimostra che Juncker ha chiara l’idea di spezzare il legame di tutela del Consiglio europeo che è stato preminente negli ultimi anni nel guidare le politiche dell’UE: vedremo in questo senso come andrà il duello con Donald Tusk che ne sarà il Presidente.
Potremmo anche enfatizzare la bassa presenza di commissari socialisti (8 su 28) o l’equilibrio di genere mancato (9 donne e 19 uomini) ma sappiamo che i popolari hanno vinto le elezioni europee e hanno dato una forte impronta alla Commissione. Registriamo quindi che il processo di democratizzazione dell’Europa prosegue: dopo i passi indietro in seguito al Trattato di Lisbona e a causa della crisi in cui i governi hanno preso il ruolo di guida del continente e la Germania il ruolo di maggiore azionista, arriva un Presidente della Commissione designato dai partiti europei in Parlamento prima delle elezioni e quindi legittimato dal voto. La politicizzazione delle elezioni ha portato quindi una politicizzazione della Commissione che può riprendere il suo ruolo di governo europeo in alleanza col Parlamento, facendo somigliare un po’ di più l’intera costruzione ad una democrazia parlamentare.
Le dichiarazioni del lussemburghese sono infatti esplicite: “I commissari non sono dipendendi pubblici, sono politici con un programma e ambizioni: questa è una Commissione pienamente legittimata. Mi accerterò che i commissari seguano l’agenda europea e non quella dei loro paesi. Il presidente e il primo vicepresidente saranno in grado di fermare qualsiasi iniziativa, anche legislativa che non risponda al programma politico. L’ho detto durante la campagna elettorale: dobbiamo colmare il distacco tra la Commissione e i cittadini.”
Juncker non sarà quindi un nuovo incolore Barroso: sa che deve recuperare indipendenza (anche il fatto di aver scelto 18 tra ex ministri o primi ministri nazionali è significativo) e probabilmente lo farà spingendo sulla crescita perchè la crisi va risolta a livello europeo, non si possono lasciare da soli i singoli paesi. D’altronde la prima e più importante promessa del Presidente è stato il piano di investimenti di 300 miliardi in 3 anni, da molti reputato insufficiente ma pur sempre un’inversione di tendenza dopo la prima diminuzione del bilancio europeo nella storia deciso l’anno scorso dai capi di stato e di governo.
Insomma non è la Commissione europea che sognavamo, però l’evoluzione verso una maggiore legittimazione democratica delle istituzioni “federali” europee è comunque un fattore positivo.