Il Jobs Act, dopo i decreti attuativi, ha una fisionomia ben definita. Molto chiara, se la si analizza con attenzione. Se invece si fa propaganda…
Non deve scandalizzare se il governo ne fa un tot. Un tocco di rosa è parte del gioco. In questo caso, un tocco di verde: la legge “che una generazione aspettava da sempre”, che “combatte la precarietà, non i precari” (giovani, s’intende).
Come mai allora i giovani non esultano? Perché contestano? Sono ingrati o frastornati dai gufi?
Il fatto è che anche la propaganda più sofisticata e più martellante ha un limite. Non si può arrivare a capovolgere del tutto la verità, impunemente. E la verità è che il Jobs Act è una legge studiata per fare in modo che i giovani, fetta di società debole, polverizzata e priva di rappresentanza, si carichino sulle spalle un peso ancora maggiore di quello che hanno sopportato fin qui sotto i colpi della crisi. Per non scalfire i privilegi di chi nella crisi si è arricchito e acquistato ulteriore potere.
Diciamola, allora, questa verità fino in fondo, testi alla mano, fuori dalla propaganda.
Contratto a tutele crescenti. La tutela dello Statuto per i dipendenti delle imprese “over 15” non è riconosciuta ai nuovi assunti. Per loro (ossia per i più giovani) le tutele diminuiscono. Non ci sono tutele che crescono nel tempo: le perdono e basta. Cresce invece (come è sempre stato e non può non essere) l’indennizzo monetario quando si perde il posto di lavoro.
Dice qualcuno: diminuiscono le disparità, anche gli “anziani” che cambiano lavoro passano al nuovo regime (è un vantaggio per i giovani?). Di nuovo contro i più deboli, i dipendenti di una ditta che perde un appalto, costretti a subire il passaggio a quella che subentra per non perdere il lavoro. Per il resto, l’effetto sarà di ingessare ancor più il mercato del lavoro: la mobilità da posto a posto sarà, come è giusto e inevitabile, osteggiata con tutte le forze.
Dice qualche altro: con gli incentivi si trasformeranno contratti precari in tempi indeterminati “nuovo regime”. Vero, potrà succedere (verso dicembre, prima che finiscano gli incentivi) per i contratti a tempo determinato (non ancora scaduti). Nessuno, neanche il governo, se la sente di prevedere che il saldo netto di queste trasformazioni sarà positivo. E’ invece certo che la quota di contratti stabili, a tutele piene, diminuirà e che tra questi saranno zero quelli destinati a giovani. Dopo che il decreto Poletti ha fatto sì che 4/5 delle nuove assunzioni siano a tempo determinato.
Contratti di collaborazione (co.co.co. e co.co.pro.) I co.co. finalmente aboliti e “rispediti nel pollaio”? Dice la legge che dal 1/1/2016 si applicherà la disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni “che si concretano in una prestazione di lavoro esclusivamente personale, continuativa, di contenuto ripetitivo, e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche in riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Dunque, non si stabilizzano i co.co. vari ma (dal 2016) solo quelli con le caratteristiche descritte. Che configurano, esattamente, un rapporto di subordinazione, sotto qualunque veste formale si presentino. Già ora il giudice (se prima non è intervenuto un ispettore del lavoro) quando riscontra queste caratteristiche sancisce la trasformazione in lavoro dipendente. Non dal 2016, come “concede” il Jobs Act (a chi? al lavoratore o al datore?), ma risalendo al momento dell’assunzione.
Non basta. I (giovani) co.co. si stanno accorgendo che non è neanche vero che non cambi niente, perché invece cambia, eccome. In peggio. Non solo perché si rinvia nel tempo per il settore pubblico (ma in giro ci sono un po’ di vertenze per la stabilizzazione di co.co. nel pubblico e ora si deve vedere che fine fanno). Il problema è che si “fanno salvi” i rapporti di cui parla la legge (non è per insistere, ma si tratta di quelli con tutti i crismi della subordinazione) per alcuni casi specifici. Che sono i dipendenti delle società sportive dilettantistiche, i professionisti iscritti ad albi e i casi regolati da accordi sindacali (il più conosciuto è quello che riguarda i call center). Se qualcuno di questi ha in corso una vertenza per vedere riconosciuto il suo diritto a fronte di una collaborazione finta (= fraudolenta) sappia che ora il giudice troverà un ostacolo in questa legge che la “fa salva” e quindi permette al suo datore di “farla franca”.
Aggiungiamo qualcosa sul part-time. Premettiamo che siamo il paese europeo con la più alta quota di part-time involontari (quelli che nelle indagini statistiche rispondono SI alla domanda “se ti fosse offerto un lavoro a tempo pieno lo accetteresti?”) mentre la UE raccomanda di puntare su quelli volontari (che rispondono NO). Bene (cioè male): ora, di soppiatto, si porta da 5 a 2 giorni il preavviso minimo perché il datore possa spostare collocazione o durata del lavoro supplementare (le ore in più richieste al dipendente oltre a quelle pattuite: “dopodomani mi fai anche 4 ore il pomeriggio”). Chissà perché, tocca quasi sempre ai/alle giovani, che “hanno tanto tempo libero!”
E sul lavoro ripartito, l’unica tipologia, fra le 42 esistenti, ad essere davvero abrogata. Erano 300 contratti in tutto, utili per le coppie (giovani, in genere) con familiari a carico, perché il peso non gravasse su uno solo ma lavorassero entrambi, a giorni alterni o a ruota tra mattina e pomeriggio, senza perdere il reddito corrispondente a un tempo pieno. Interessava alcune giovani coppie, ma era considerata scomoda dai datori.
Concludiamo con i tanto discussi licenziamenti collettivi.
L’imprenditore che intende ridurre di più di cinque unità il personale per motivi economici deve sottostare a una procedura in cui, in contraddittorio con i rappresentanti sindacali, presso gli Uffici del Lavoro, si verifica (a parte la sussistenza dei motivi) se la scelta delle persone risponde a criteri ragionevoli e obiettivi o se presenta aspetti discriminatori o arbitrari. Con il JA (per assicurare una coerenza interna, “sistematica”, sostiene impassibile il prof. sen. Pietro Ichino, rispetto ai licenziamenti economici individuali del nuovo regime) questa verifica riguarderà solo gli “anziani”, mentre i nuovi saranno in ogni caso licenziati. Per gli ultimi, i più giovani, non conterà se per caso c’è in casa un neonato, o un anziano non autosufficiente, se nella convivenza ci sono o no altri redditi, se la mansione è una di quelle da sopprimere. Tolgono il disturbo e pace. Con indennizzo crescente, per quel po’ che avranno maturato (sempre meno di quello degli anziani).
Questo, a conti fatti, è il Jobs Act per i giovani. Se non esultano non è per ingratitudine.
Ripartire da loro non è un’opzione, è un obbligo.