Ieri, nel suo intervento alla Camera, il presidente del Consiglio ha disegnato un intero pantheon di padri e ispiratori, tra reali e ipotetici, della riforma di cui chiedeva l’approvazione, da Dossetti a Terracini riletti all’ombra di Napolitano, non dimenticando i saluti e ringraziamenti di rito all’attuale inquilino del Quirinale. Non sta mai bene tirare qualcuno per la giacca, tantomeno il capo dello Stato. Però, magari, citarne le parole può essere opportuno. Se non altro quale esercizio di memoria.
Nel prendere la parola durante il dibattito sulla legge costituzionale voluta dal centrodestra, il 20 ottobre del 2005, l’allora deputato Sergio Mattarella ricordò come ai tempi dell’Assemblea costituente vi fossero «serie questioni di contrasto, un confronto acceso e polemiche molto forti. Eppure, maggioranza e opposizione, insieme» approvarono la Costituzione. Quando si discuteva e votava quella Carta, disse alla Camera, «al banco del governo sedeva la Commissione dei 75, composta da maggioranza e opposizione», e il governo non era al suo posto proprio «per sottolineare la distinzione tra le due dimensioni: quella del confronto tra maggioranza e opposizione e quella che riguarda le regole della Costituzione. Questa lezione di un governo e di una maggioranza che, pur nel forte contrasto che vi era, sapevano mantenere e dimostrare, anche con i gesti formali, la differenza che vi è tra la Costituzione e il confronto normale tra maggioranza e opposizione, in questo momento, è del tutto dimenticata».
Riecheggia, in quelle frasi, l’invito a lasciar vuoti i banchi del governo quando si discute di temi costituzionali rivolto da Calamandrei all’esecutivo De Gasperi. Una questione di merito, non un fatto di stile. Perché se è delle regole comuni che si discute (qualcuno ha definito la Costituzione e la necessità di condividere la storia e il racconto condiviso dello spirito repubblicano «il patto che ci lega»), queste non possono essere affare di una maggioranza di governo. Non parliamone, poi, se questa è tale nei numeri e nella composizione in virtù di una legge elettorale giudicata incostituzionale (piccola annotazione: la maggioranza di governo, quella che rivendica, come dice il suo leader, «il diritto e il dovere di fare le riforme», è composta dal Pd, che alle elezioni con cui nasce questa legislatura aveva il 25,4% e ha ottenuto il premio di maggioranza anche grazie ai voti di Sel, ora all’opposizione, Centro democratico, 0,5%, Svp, 0,4%, montiani sparsi e Udc, che in tutto non andarono oltre il 10,5%, e Ncd, che a quelle elezioni nemmeno c’era, e che a esser buoni si può accreditare del 4,4% delle ultime consultazioni generali a cui ha preso parte. A quanto siamo? 41%? Al massimo, volendo seguire la logica di quanti vedevano nel responso delle Europee un viatico per le riforme, la stessa può essere accreditata del 45–46%; vi pare “maggioranza”?).
Con quello che in queste ore vediamo s’inaugura una prassi, si delinea un precedente, e non dei migliori. Per tornare al Mattarella di undici anni fa, «oggi, voi del governo e della maggioranza state facendo la “vostra” Costituzione. L’avete preparata e la volete approvare voi, da soli, pensando soltanto alle vostre esigenze, alle vostre opinioni e ai rapporti interni alla vostra maggioranza. […] Sapete anche voi che è fatta male, ma state barattando la Costituzione vigente del 1948 con qualche mese in più di vita per il governo […]. Questo è l’atteggiamento che ha contrassegnato questa vicenda. Ancora una volta, in questa occasione emerge la concezione che è propria di questo governo e di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni, ne è il proprietario. Questo è un errore. È una concezione profondamente sbagliata. Le istituzioni sono di tutti, di chi è al governo e di chi è all’opposizione. La cosa grave è che, questa volta, vittima di questa vostra concezione è la nostra Costituzione».