Un’emergenza esiste, ed è un’emergenza umanitaria, niente di più, niente di meno. Che qualche migliaio di persone sia un’emergenza che mette in crisi l’identità e il sistema di accoglienza dei paesi europei, nonché la libertà di circolazione delle persone è ridicolo: la vera emergenza sono le condizioni in cui queste persone compiono il viaggio dai propri paesi, per poi restare bloccate, per mesi, alle diverse frontiere che incontrano.
Subotica è una città serba di 140mila abitanti, al confine con l’Ungheria. È una dei due varchi per rientrare in Unione Europea dalla Serbia (l’altro è al confine croato), ed è qui che si concentrano, in questo momento, le speranze e le vite di circa 1200 persone: siriani, afghani, pakistani, soprattutto, che non hanno chiesto asilo in Bulgaria e Grecia per cercare di spingersi verso il nord Europa nonostante il regolamento di Dublino.
Duecento in città, presso la stazione dei bus, 300 nel campo informale di Kelibia, 700 ad Horgos, due piccole località che si trovano esattamente alla frontiera. Un campo informale non è altro che un accampamento costituito da tende da campeggio, senza nient’altro: nessun servizio, nessuna struttura, nessun tipo di informazione. Polizia serba e prefabbricati blu oltre il confine di filo spinato sono l’unica presenza istituzionale. I primi servono a imporre ordine e a cacciare coloro che non sono profughi: “no photo, go back”, o altrimenti vi arrestiamo, ci dicono. La vita nel campo “it’s not human”, ci dice un altro. I prefabbricati blu sono strutture della polizia ungherese: ogni giorno circa 30 (trenta!) persone passano il confine sulla base di una lista curata dalle autorità di confine. Sembra legale, ma non lo è per le autorità ungheresi: tutti vengono messi in stato di fermo perché accusati di ingresso illegale, ci raccontano i profughi — consapevoli del proprio destino — e ci confermano altri volontari.
Le condizioni all’interno del campo di Kelibia, l’unico nel quale siamo riusciti ad entrare fin quando non ci hanno allontanati, sono semplicemente pessime. E non credo sia il caso di andare oltre. 2000 euro a persona per passare il confine tra Macedonia e Serbia, guidati dai passatori. “Stanotte proviamo a passare”, ci dicono due adolescenti. Anche loro con i passatori: gli unici a sapere come fare, quali tasti toccare.
Bambini. Ci sono un sacco di bambini. E ci sono neonati e donne incinte. 2000 euro anche per loro.
Questo è quello che si vede sulla rotta balcanica. Vi diranno che la rotta è chiusa, il che non significa nulla. Le persone che si trovano qui non sono in vacanza, ma scappano dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla violenza. Non le ferma nulla. Non hanno paura di camminare: di strada ne hanno tanta alle spalle. Non hanno paura di dormire in tenda, estate e inverno, per mesi con i propri figli: non hanno una casa in cui tornare. Non hanno paura del della detenzione, delle botte. Non hanno paura del buio.
Possiamo scappare noi, chiuderci dietro il filo spinato. Oppure costruire un sistema di accoglienza che garantisca i diritti umani, niente di più, niente di meno. E possiamo farlo a partire dalle migliori esperienze italiane, che dovrebbero essere un esempio per tutti. La scelta è questa, ed è una scelta tutta politica.
Proprio dalle migliori esperienze di accoglienza è nata “Nessun Paese è un’Isola”, pubblicazione autofinanziata. Per partecipare al crowdfunding, clicca QUI.