“O apri tutto, o chiudi tutto”, così risponde un imprenditore nel mondo del food and beverage alla domanda “ma come possiamo fare a tenere insieme lavoro e emergenza sanitaria?”.
È così che F. ci racconta le proprie difficoltà nel mandare avanti il suo bar ristorante, tra i più attivi in uno dei quartieri più vivi della Capitale pre-pandemia.
Perché non è tanto lo stare chiusi che crea enormi difficoltà ai piccoli imprenditori come lui, bensì il non sapere con un sufficiente preavviso quando e come si possa stare aperti.
E allora succede che si fanno letteralmente i conti senza l’oste, si comprano beni di consumo deperibili per organizzare un’apertura che all’improvviso non si può fare perché, nel frattempo, “strega comanda colore diverso”. Perché i dati cambiano con una frequenza spaventosa, e tutto l’impianto di monitoraggio si adegua, e quindi da giallo diventi arancione, o da arancione diventi rosso, o tutto lo spettro delle varie combinazioni.
E cambia la lista degli esercizi che possono svolgere la propria attività commerciale, e cambiano gli orari all’interno dei quali questa attività può essere svolta.
La conseguenza è che tutto l’approvvigionamento va a farsi benedire e, contestualmente, i danni economici ai titolari delle piccole imprese (insieme a quelli sociali e ambientali causati dallo spreco, ma questo è un capitolo a parte) diventano — nel lungo periodo — incalcolabili.
E allora, chiede F., non sarebbe più intelligente evitare l’asporto e i conseguenti assembramenti nella famosa piazzetta dietro il suo bar e consentire invece il consumo al tavolo seguendo istruzioni e regole su capacità e distanziamento ben definite? E garantire poi un controllo sulla corretta implementazione di tali principi?
Oppure, semplicemente, non converrebbe prendere atto del fatto che la socialità è un lusso che — ad oggi — non ci possiamo permettere, a pranzo come a cena, e prendere decisioni drastiche ma efficaci, trovando il modo di compensare le attività a rischio?
Con l’attuazione del primo Decreto Rilancio, il Governo aveva previsto — con tutti i distinguo del caso, a seconda dell’attività — delle forme di compensazione per questo tipo di situazioni: lo stato di emergenza persiste almeno fino alla fine di aprile, il sostegno su affitti e spese (fisse), invece, viene meno.
E questo mette in ginocchio tantissime realtà che, in alcuni casi, non apriranno mai più.
Sembra dunque evidente che c’è bisogno di sbloccare risorse per il welfare, per il sostegno all’impresa e alla famiglia. Ne abbiamo scritto a lungo, e i decisori non sembrano aver fatto tesoro dell’esperienza dell’ultimo anno, perché — a ben vedere — ci ritroviamo a ripetere ancora le stesse cose, per mesi e mesi.
Ci sono i fondi del Recovery Plan, che se ben impiegati potrebbero portare a un rilancio economico del sistema grazie ad un’allocazione efficiente della spesa pubblica.
E poi c’è il MES, che svincolerebbe immediatamente 36 miliardi di euro di investimenti da spendere in sanità pubblica, e che potrebbero essere impegnati per politiche di welfare, a supporto di individui e famiglie che sono stati travolti dalle conseguenze socio economiche della pandemia.
“O apri tutto, o chiudi tutto” e nel frattempo, mentre si chiedono sacrifici enormi, si deve trovare il modo di organizzare tutti quegli aspetti della quotidianità che impattano sulla sicurezza dei cittadini, sulla trasmissione del virus e sulla tenuta del sistema sanitario che, tutt’oggi, non hanno ancora trovato sufficiente rimodulazione.
Nessuno dice che sia facile, ma non è neanche possibile continuare come se fosse mosca cieca.