Rimozione forzata, quante volte lo si legge nei segnali stradali in tutte le città. Anche nella psicoanalisi il processo che reca quel nome è una distorsione del reale, nel momento in cui cancella dalla coscienza elementi materiali invece presenti, e con cui il soggetto non ha intenzione di fare i conti per venirne a capo. Ultimamente la rimozione, o il suo desiderio, va un sacco anche in politica: prova ne sono i continui riferimenti a vocaboli quali oltre, superare, mettersi alle spalle, senza che prima vi sia un processo chiaro, effettivo, impietoso che distribuisca ragioni e torti, storicizzi quel che ormai non può più tornare e disegni moniti marmorei per il futuro. Tale nuova abitudine semantica, in specie a sinistra, non sta da una parte sola della contesa congressuale, e coinvolge “oggetti” tra i più disparati: ora Berlusconi e il berlusconismo, ora la stessa rottamazione, un anno fa era l’agenda Monti, in questi giorni il tesseramento selvaggio al PD. Sempre oltre, mai contro: acrobazie lessicali per dire e non dire, strizzare l’occhio e rassicurare, fare un passo avanti e due indietro, in buona sostanza non eliminare l’ostacolo bensì aggirarlo.
In principio fu Matteo Renzi, che richiesto ‑durante le primarie di un anno fa- di dire qualcosa a riguardo della vicenda politica e giudiziaria di Silvio Berlusconi, affermò spesso come suo intento fosse quello di superare il ventennio trascorso, mettersi alle spalle berlusconismo e antiberlusconismo: come se fossero la stessa cosa, come se chi ha creato la maggior parte dei problemi in cui versa il Paese e chi l’ha combattuto ‑a volte male, a volte con scarsa sufficienza, a cominciare dalla mancata legislazione in tema di conflitti di interesse- abbiano eguali responsabilità. Detta rimozione è spiegabile nella logica secondo cui i “delusi” da sedurre sono quelli dell’altra parte, per lontana che sia, da non disturbare troppo affermando le nequizie per cui hanno votato convintamente in tutto questo periodo, e che un centrosinistra limpido e coerente dovrebbe avversare prima di principio, poi con una serie di pratiche opposte nei metodi e nel merito: il modo cioè per consegnare Berlusconi ‑tutt’altro che finito, si direbbe- e la sua ideologia al giudizio degli storici, a prescindere anche dalle contingenze tribunalizie dei suoi rapporti controversi con la legge.
In quei giorni, Pier Luigi Bersani andava dicendo, a chi voleva conoscere quale fosse il programma della coalizione che si stava candidando a governare il Paese dopo un anno di esercizio tecnico, di voler andare oltre Monti e la sua agenda, che poi avremmo saputo essere stata griffata dal professor Ichino. Bersani non intendeva, in quel momento, nè rimettersi a un pigro seguito delle politiche che in quei mesi l’Europa creditrice stava imponendo all’Italia ‑sia per adesione teorica, che per la presenza nel Partito Democratico di un nucleo di esponenti apicali vicini allo spirito del professore milanese- nè, d’altra parte, annunciare che una volta a Palazzo Chigi avrebbe cambiato tutto, contrattato il rigore, chieste modifiche ai patti di stabilità, stretto asse con Hollande e quant’altro, da sinistra, avrebbe potuto provocare uno strappo. L’ex segretario temeva infatti che il Porcellum al Senato avrebbe potuto non assegnargli una maggioranza chiara, e si stava rassegnando (o ben disponendo, a seconda dell’angolo visuale) a un nuovo abbraccio con la ventura Scelta Civica: quello che oggi, col senno e il PDL di poi, quasi considereremmo un esito paradisiaco.
Opportunismo o reticenza, dunque, tra i caratteri esponenti del concetto di oltre. Che dire, di nuovo, del rottamatore (ormai definito “ex rottamatore” perfino nei quotidiani non ostili) che, metabolizzata la sconfitta alle primarie 2012, risale la china del consenso tessendo una tela interna al partito e lanciando una nuova pubblicazione editoriale dal titolo “Oltre la rottamazione”? Non occorre essere maligni per notare come molti dei rottamandi dell’anno prima siano ancora in pista ‑Rosy Bindi presidente della commissione Antimafia, Anna Finocchiaro artefice della ventura legge elettorale, per restare alle due derogate celebri- se non arruolatisi con gradi differenti nelle file “carriste”, dal vicedisastro Franceschini a Piero Fassino, dall’ineffabile Latorre al volitivo Boccia, dal siciliano Francantonio Genovese naturalmente a Veltroni. E quindi il ragazzo, che è intelligente, ha capito che invece di abbatterli era meglio coinvolgerli, artefacendo il dizionario di modo che la rottamazione, l’anno scorso un must da cover telefonica, diventasse un passaggio da lasciarsi alle spalle: come fosse avvenuta davvero, a uso e consumo degli altri che fossero arrivati ora.
A non smentire l’assunto di partenza, stupisce perciò l’abstract che campeggia nella homepage del sito PartiamoBene.it, aperto nelle settimane scorse dai promotori del blog di ispirazione socialdemocratica T‑Red: una iniziativa apprezzata che si pone dalla parte giusta, ovvero fare chiarezza preventiva riguardo l’attualissimo tema delle malversazioni nel tesseramento al Partito Democratico, suggerendo ‑tra le altre soluzioni, alcune delle quali mutuate da altre nazioni europee- iscrizioni online, pagamento non in contanti e centralizzato, invio postale, doppio livello, revisione proporzionale delle quote, completezza dei dati. All’appello ha aderito, tra i primissimi, anche Giuseppe Civati. Eppure, a collegare sinistramente i puntini di cui sopra, torna l’assurdo: perché definire “oltre il tesseramento selvaggio” l’insieme delle procedure condivisibili che si possono, anzi ormai si potevano, attuare? Non era più naturale dichiararsi contro di esso? Forse per qualcuno sono solo paturnie verbali, per altri invece è importante adoperare sempre il termine più appropriato, e soprattutto consequenziale, univoco: non sono solo parole, dietro ad esse ‑nella bella lingua che abbiamo ereditato- c’è sempre un significato.