Il Governo andandosene lascia nei guai i cittadini, avendo reso il loro voto molto più difficile. Infatti, con la sentenza n. 1 del 2014, la Corte costituzionale aveva dichiarato incostituzionale il Porcellum, la legge concepita dal ministro Calderoli, con cui si sono svolte le elezioni del 2006, del 2008 e del 2013.
Quella legge era incostituzionale perché, oltre ad avere lunghe liste bloccate (che impedivano all’elettore di scegliere gli eletti), prevedeva un premio di maggioranza attribuito alla lista o coalizione più votata, a prescindere dal proprio risultato: anche se questo fosse stato del 20% o magari del 29%, come è accaduto davvero nel 2013, i seggi sarebbero stati il 54%. Al Senato, poi, il premio non era nazionale, ma si attribuiva addirittura Regione per Regione, con l’effetto – si legge nella sentenza n. 1 del 2014 – «che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo».
In sostanza, il premio è sempre guardato con sospetto, alterando il risultato elettorale, ma la sua “tollerabilità” è legata, da un lato, a un’alterazione del voto non troppo forte (come è invece quella che consente di passare potenzialmente dal 20% dei voti al 55% dei seggi) e, dall’altro, al raggiungimento dell’obiettivo di favorire la formazione di un Governo.
Se questo certamente esclude la possibilità di premi di maggioranza regionale, in base all’appena ricordato passaggio della sentenza n. 1 del 2014, sembra almeno da sconsigliare la previsione del premio di maggioranza in presenza di due Camere elette a suffragio universale diretto che debbano dare entrambe la fiducia al Governo. Infatti, la attribuzione di decine e decine di seggi a una lista o coalizione anche per un solo voto (come accade con il premio di maggioranza regionale) potrebbe in sostanza favorire la formazione di maggioranze differenti nelle due Camere.
Questo, peraltro, non è che un motivo ulteriore che conferma la nostra forte diffidenza nei confronti di sistemi con premio di maggioranza (molto diversi dal maggioritario di collegio) con i quali si crea in modo artificioso una maggioranza a livello nazionale, “premiando” con molti seggi chi vince anche per poco rispetto ad altri. Certamente la previsione del premio solo in presenza di soglie alte diminuisce la distorsione e riduce (senza eliminarle) anche le possibilità che il premio venga attribuito a forze diverse nelle due Camere, ma questo premio (attribuito, ad esempio, a chi avesse ottenuto il 45% dei voti) risulterebbe probabilmente ineffettivo (nessuno arrivando probabilmente a tanto). D’altronde, la mera attribuzione di un bonus (ad esempio del 10%) a chi arrivi primo risulta ancor più inappropriato in quanto rischierebbe di distorcere comunque il risultato elettorale senza assicurare la governabilità.
In un Paese, come il nostro, in cui si ritiene giustamente opportuna una maggiore stabilità degli Esecutivi, di cui abbiamo sentito parlare tanto anche di recente, una soluzione appropriata e già sperimentata in modo, tutto sommato, abbastanza efficace (soprattutto con il progredire delle applicazioni) è quella offerta dalla legge Mattarella, con cui, a seguito dei referendum del 1993, il Parlamento regolò l’elezione delle due Camere. Il sistema era basato su collegi uninominali in cui si presentava quindi un candidato per ciascuna lista e gli elettori sceglievano il loro preferito, venendo eletto quello che riportava più voti. Se questo valeva per il 75% dei candidati, il 25% era invece eletto con il sistema proporzionale, concepito diversamente per la Camera e per il Senato. Quello per quest’ultimo risultava preferibile perché non prevedeva il complicato meccanismo dei listini paralleli regionali (come alla Camera), ma semplicemente il recupero, nell’ambito della Regione, dei candidati nei diversi collegi con il migliore risultato tra quelli non già eletti perché arrivati primi nel collegio stesso (spingendo così anche verso un più deciso superamento della frammentazione partitica favorita invece dai listini paralleli della Camera).
Ora, se questa sembra la soluzione migliore, è anche vero che le Camere si trovano oggi nella complicata situazione di avere già commesso molti errori in materia elettorale (fino alla votazione della fiducia sull’Italicum) e al contempo di dover assicurare una legge elettorale capace di funzionare per le due Camere consentendo ai cittadini di scegliere. Per questo ciascuna forza politica dovrebbe fare le proprie proposte e anche indicare la propria disponibilità a convergere su altre. Dopo il referendum del 4 dicembre, in cui il corpo elettorale ha rivendicato così fortemente il proprio diritto di voto (andando a difendere, tra l’altro, anche la scheda per l’elezione del Senato che la riforma voleva sottrargli), l’unica cosa da evitare è proprio quella di indirizzarsi verso sistemi elettorali che, attraverso premioni nazionali dati più o meno anche a chi non li merita, distorce gravemente la rappresentanza e soprattutto non assicura un legame elettore-eletto, come quello che si instaura certamente con il collegio uninominale in cui viene eletto uno o più candidati.
Da qui occorre ripartire, come tre anni e mezzo fa, con maggiore rispetto degli elettori e delle indicazioni della Corte pervenute con la sentenza n. 1 del 2014.