La levata di scudi a tutela del Patent Box, «un regime opzionale di tassazione agevolata per i redditi derivanti dall’utilizzo di software protetto da copyright, di brevetti industriali, di marchi d’impresa (poi esclusi per le opzioni esercitate dopo il 31 dicembre 2016), di disegni e modelli, nonché di processi, formule e informazioni relativi a esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili» (cfr. Agenzia delle Entrate), appena modificato dal governo Draghi, altro non è che l’ennesima reazione pavloviana alla difesa di una agevolazione fiscale fin troppo borderline. Serviva una messa a punto, per eliminare le storture che da sempre accompagnano questa misura. Ma siamo di nuovo alle prese con un risultato monco. Vediamo il perché.
Il Patent Box nei fatti è stato — almeno sino al decreto 21 ottobre — un’agevolazione che premia imprese già avvantaggiate, senza necessariamente incentivare davvero la Ricerca e Sviluppo (R&S). È stato introdotto in Italia con la Legge di Stabilità 2015 (Legge 23 Dicembre 2014 n. 190) in modo difforme rispetto alle linee guida OCSE per un aspetto che ha avuto un impatto enorme, e cioè la presenza dei marchi tra gli IP (proprietà intellettuali) agevolabili, cosa unica tra tutti i Paesi OCSE. Tra il novero di paesi in cui già esisteva tale strumento, in nessuno era prevista la detassazione dei redditi derivanti dall’utilizzo dei marchi. Un unicum tutto italiano, adottato — così è stato detto — per la valorizzazione del Made in Italy.
Da allora, il Patent Box in Italia ha generato enormi benefici per le società più grandi e strutturate, tra cui soprattutto quelle che hanno opzionato i marchi, cioè quelle con i più alti margini di valore aggiunto e di profitto. Questo exploit però è stato evidente per le opzioni avviate nei primi due anni di agevolazione, ovvero quelle relative ai quinquenni 2015–2019 e 2016–2020. Dal 2017 i marchi sono stati giustamente esclusi dal paniere (fatte salve le opzioni già in essere), l’agevolazione è rientrata nei binari OCSE e il bacino di utilizzo si è ridimensionato enormemente. Si tratta di pratiche, quelle avviate dal 2017 in poi, che in larga parte sono tuttora pendenti e non hanno ancora visto concretizzarsi il beneficio per le aziende.
Per dare un giudizio sulla portata dell’agevolazione, infatti, non si può prescindere dalla dimensione operativa: il Patent Box è per molte aziende una misura impegnativa sul piano tecnico e temporale, perché la determinazione del reddito agevolabile comporta un notevole onere documentale e l’applicazione di metodologie complesse che (nella maggior parte dei casi) devono essere verificate e concordate preventivamente con l’Agenzia delle Entrate, prima di poter concludere un accordo di ruling e di poter usare il beneficio in dichiarazione dei redditi.
Un percorso che può durare anni e che è più facile da affrontare per realtà strutturate e medio-grandi che non per aziende piccole e micro, per quanto innovative. Un percorso che ha visto un alternarsi di rallentamenti e tentativi più o meno riusciti da parte dell’Agenzia delle Entrate di velocizzare le pratiche con procedure standardizzate, ma con dinamiche e tempistiche diverse da regione a regione (a seconda del carico di lavoro per gli uffici, tanto maggiore quanto più numerose erano le imprese che presentavano istanza) e spesso appesantite da avvicendamenti, trasferimenti e sostituzioni nelle dirigenze e nel personale degli uffici.
Una situazione ondivaga che, complessivamente, ha penalizzato soprattutto le aziende più piccole e meno strutturate le quali, pur avendo lo stesso diritto delle altre ad accedere all’agevolazione, hanno sofferto di più il protrarsi delle pratiche e quindi della possibilità di essere ammesse al beneficio, tanto da trovare spesso preferibile l’abbandono della procedura e la rinuncia all’agevolazione, piuttosto che tollerare ulteriori ritardi e incertezze.
Ecco quindi che, al di là della natura normativa di un’agevolazione, un elemento di disuguaglianza è stato generato da aspetti puramente operativi, che diventano ostacoli all’accessibilità della stessa, trasformata in una misura “per pochi” — che non significa “i migliori”, come vorrebbe far credere qualche commentatore.
Il regime è stato solo in parte modificato con il Decreto Crescita, che ha dato la possibilità di “auto-liquidare” il beneficio determinandolo in autonomia anziché affrontare il ruling — ma a parità di oneri documentali ora interamente a carico del richiedente, il quale è più esposto ai controlli ex post.
Il Patent Box, si diceva, non è (era) un vero e proprio incentivo alle attività di ricerca e sviluppo. Tutte le categorie di costi di ricerca e sviluppo considerate ai fini dell’agevolazione hanno un peso qualitativo più che quantitativo: ciò che conta è il reddito che l’impresa ha generato sfruttando i beni immateriali che ha sviluppato, indipendentemente da quanti costi ha sostenuto per svilupparli (l’importante è averne sostenuti, in un certo arco di tempo, ed è preferibile che gli IP siano farina del suo sacco e non acquisizioni da terzi).
È un meccanismo premiale, quindi, non tanto per aziende che “fanno innovazione” di per sé, quanto per aziende che hanno già avuto successo nel “fare innovazione”. Una cosa che è possibile misurare soltanto dopo che gli investimenti in R&S sono andati a buon fine, non in origine, quando devi decidere se affrontare o meno il rischio dell’avvio di un nuovo progetto.
Il Patent Box “semplificato” introdotto dal D.L. del 21 ottobre ribalta la prospettiva e riscrive da capo la normativa, abrogando le disposizioni della Legge di Stabilità 2015 e quelle del Decreto Crescita del 2019 che introdusse l’auto-liquidazione, spostando il fulcro dell’agevolazione dalla redditività generata dai beni immateriali, ai costi sostenuti per il loro sviluppo.
Sul piano del principio, il Patent Box dovrebbe essere alla portata di molte più aziende. Sbaglia chi commenta lamentandosi dell’abolizione di un regime virtuoso che premia la meritocrazia e l’eccellenza. Sbaglia perché la ricerca che viene agevolata deve essere comunque vincolata allo sviluppo o al mantenimento di beni immateriali che sono oggetto di utilizzo, e non per qualsiasi tipo di ricerca. D’altronde, per chi non ha brevetti, il “know-how” incluso tra i beni agevolabili non è una cosa che si inventa dal nulla.
Per certi aspetti, è diventata un’agevolazione più “democratica”, o quantomeno meno “elitaria”. Non è più previsto un contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate (salvo aggiornamenti normativi) perché non vi è più un reddito soggettivo da determinare (ma potrebbero esserci più controlli ex post e la possibilità di recuperare agevolazioni non dovute). In ogni caso, accedere risulterà più facile, alla portata di aziende meno strutturate, e questa pare una buona notizia.
Permangono tuttavia diverse criticità, alcune davvero sorprendenti.
La prima è operativa: la norma è già in vigore ma mancano le disposizioni attuative che, diversamente dal Patent Box precedente, non arriveranno da un decreto attuativo ministeriale bensì direttamente da provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate, che quindi acquisisce un margine di discrezionalità enorme.
La seconda è un “bug” normativo che riguarda il destino delle opzioni per l’esercizio 2020 nell’attuale modello redditi (con scadenza 30/11).
La terza è legata al fatto che il governo ha scelto di reintrodurre i marchi (!!!): questo regime rispetta davvero le linee guida OCSE?
Quarto: in termini di gettito potrebbe esserci un peggioramento rispetto al Patent Box precedente (almeno di quello realizzato nel periodo successivo all’esclusione dei marchi). Se infatti la generosa maggiorazione dei costi deducibili è applicabile di nuovo anche ai marchi (e quindi alle spese di promozione, ad esempio), ciò significa che molte più imprese avranno la possibilità di ridurre il proprio imponibile — come ad esempio le grandi aziende della moda e dintorni che avevano già beneficiato della prima versione del Patent Box.
Purtroppo vi sono sia luci che ombre nella nuova stesura di questo dispositivo. Qualcosa che assomiglia al frutto di un compromesso al ribasso, senza una vera filosofia o strategia di fondo per fare un passo in avanti nello sviluppo del Paese.