Sarà che il clima vacanziero stimola poco la fantasia, sta di fatto che il governo ha pensato (e poi smentito) di introdurre quello che il ministro Poletti ha definito “contributo di solidarietà”: più banalmente, un prelievo fiscale aggiuntivo alle cosiddette pensioni d’oro. Una misura che dovrebbe apportare alle casse dello Stato addirittura un miliardo di euro. La notizia era l’apertura di Repubblica del 19 Agosto. Le hanno chiamate superpensioni, coltivando quel retropensiero che contro questi arcinemici ci vogliano superuomini con superpoteri. Ma non vi tedierò oltre con l’aspetto del lessico impiegato nel caso di specie. Quel che qui interessa è far notare come l’idea del prelievo sugli assegni di questi 11.600 fortunati con assegno superiore a 10 mila euro (la cui posizione previdenziale è maturata con le regole del sistema retributivo, ovvero con le regole antecedenti alla riforma Dini del 1995) non è nuova, non è venuta in mente né a Poletti, né Padoan, né ai laboriosi tecnici del Ministero delle Finanze.
Il più celebre tentativo di colpire la “gallina dei pensionati d’oro” (o l’Oca d’oro, cfr. Boeri) è del 2011 (con Tremonti ministro dell’Economia): nel decreto legge n. 98 del 6 Luglio venne inserito, in sede di conversione, il comma 22-bis dell’articolo 18. In esso era contenuta la previsione di un contributo di perequazione per gli assegni superiori a 90 mila euro, con un certo grado di proporzionalità. Inizialmente gli scaglioni erano solo due (5% da 90 mila fino a 150 mila; 10% oltre a 150 mila), poi diventarono tre alla fine del 2011 (15% oltre i 200 mila).
La norma ha avuto vita breve. Impugnata da un magistrato, ex Presidente della Corte dei conti, in quiescenza dal 2007, attraverso la medesima della Corte dei Conti, è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 116/2013. Prima di entrare nel dettaglio di questa pronuncia, già peraltro sviscerata in lungo e in largo ai tempi della sua emissione, è doveroso ricordare che vi sono stati altri tentativi di introdurre meccanismi cosiddetti di equità verso quei trattamenti previdenziali superstiti del metodo retributivo ed, in tutti i casi, si è curiosamente dimenticato il contenuto della sentenza n. 116/2013, prospettando soluzioni non dissimili da quanto già proposto a suo tempo da Tremonti.
A Gennaio 2014, sul tavolo vi erano nuovamente sia proposte del governo, sia delle opposizioni, le quali non si facevano mancare una qual certa variabilità, dal momento che ognuno dei gruppi presenti alla Camera aveva presentato un proprio progetto di legge, con nutrito corredo di emendamenti. Le soluzioni proposte passavano da un vero e proprio hair-cut dell’assegno mensile (proposte Meloni e 5 stelle), da ridursi alla soglia dei 3500 euro netti, passando attraverso il ricalcolo dei trattamenti con il metodo contributivo, fino a formulazioni più blande (Pd), le quali richiedevano al governo di studiare misure volte ad “una maggiore equità” e a correggere “eventuali distorsioni e privilegi ” (Atto Camera mozione 1.00285, Gnecchi e altri). Successe che la maggioranza, in commissione Lavoro, adottò il progetto di legge Meloni come testo base per poi, dopo qualche settimana di discussione, farlo affondare in aula con voto contrario. Certamente un bel modo – inconcludente — per fomentare e fuorviare il dibattito pubblico.
Va da sé che la norma sul prelievo perequativo, nonostante la sentenza di illegittimità, era stata ripristinata dal governo Letta con la Legge di Stabilità 2014, ed è tuttora in vigore. Forse i superpensionati non se ne sono accorti (e nemmeno Poletti e Padoan e i tecnici del ministero), ma i loro assegni sono soggetti al comma 486 della Legge di Stabilità 2014 (n. 147/2013), il quale prevede prelievi con scaglioni del 6% sugli assegni superiori a 14 volte il trattamento minimo (‘TM’; nel 2013 era stato fissato a 495,43 euro) e fino a venti volte, del 12% tra venti e trenta volte il TM, e del 18% per trattamenti superiori a trenta volte. Non solo: un contributo di solidarietà è già attivo su tutti i redditi superiori ai 300 mila euro (art. 2 comma 2 D.L. 138/2011 — aliquota del 3%) ed è stato riconfermato, sempre in sede di approvazione della Legge di Stabilità (comma 590), per il prossimo triennio.
Colpisce il fatto che nessuno di questi elementi sia entrato nella discussione apertasi dalle dichiarazioni del ministro Poletti. Privo del necessario radicamento con la realtà fattuale, il ministro ha pensato di mettere sul piatto (vuoto) ferragostano la proposta di colpire il privilegio degli assegni previdenziali d’oro, generando reazioni favorevoli e contrarie ma tutte allo stesso modo scollegate rispetto a quanto era stato fatto e detto in materia dai precedenti esecutivi. Anche Matteo Renzi, smentendo il suo stesso ministro, ha escluso che il governo stia studiando forme di prelievo sulle pensioni non perché già in essere ma piuttosto perché “non presenti in agenda”. Solo alcuni giorni fa, in palese ritardo, Il Corriere della Sera ha allegato ad un articolo di Alberto Brambilla, docente dell’Università Cattolica di Milano, una infografica sui prelievi operati dal contributo di solidarietà introdotto dal governo Letta. Questa circolarità fra giornalismo che non verifica e politica – per così dire – sbadata, genera un flusso argomentativo stagnante, volto a suscitare l’emotività, l’indignazione verso il privilegio. E lì si ferma.
Periodicamente il dibattito pubblico viene orientato – consapevolmente? – intorno alla questione delle pensioni d’oro, ma ciò che si riesce a proporre altro non è che una riedizione, riveduta ma non corretta, della norma di Tremonti. Invece dovrebbe essere la sentenza del 2013 a costituire il nostro punto di partenza per un ragionamento sulla riparazione di questa stortura. Anche se una eventuale riduzione degli assegni determinerebbe comunque un risparmio residuale, valutato da Boeri-Nannicini (“Quanto può restituire il pensionato d’oro”, 27.9.13,http://www.lavoce.info/contributo-di-equita-pensioni-doro/) in circa 800 milioni/anno calcolati ipotizzando un’aliquota fortemente progressiva e con intervento fin dai tremila euro mensili, l’idea di una risposta alla domanda di maggior equità non ci abbandona. I giudici della Consulta hanno elaborato una fitta giurisprudenza in materia, i cui paletti sono stati riaffermati con la sentenza 116/2013:
1) il sistema fiscale deve essere commisurato alla capacità contributiva e quindi al criterio della progressività della tassazione;
2) l’intervento perequativo ha di per sé natura tributaria;
3) il reddito da pensione è retribuzione differita, pertanto non ha natura diversa dagli altri redditi; il prelievo circoscritto alla sola categoria dei pensionati, pur d’oro, si caratterizza per l’“irragionevolezza ed arbitrarietà”: fra l’altro, osservano i giudici, se il legislatore avesse rispettato “i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica”, avrebbe ottenuto un gettito, e quindi un risultato di bilancio, ben differente.
Configurando la pensione come reddito differito, viene a perdersi la distinzione fra codesto trattamento economico e quello riservato ai manager della PA ancora in servizio, ad esempio. Non è possibile intervenire su una singola tipologia reddituale con un prelievo di tipo perequativo. Possiamo chiamarlo contributo di solidarietà, o prelievo forzoso. Boeri suggerisce la definizione di contributo “non per cassa ma per equità”, tuttavia non è chiaro se ciò basti a far perdere alla norma la sua natura tributaria. Il cambiamento di nome (da prelievo perequativo a contributo di solidarietà), insieme al mutamento di destinazione (dalle casse dello Stato alle casse dell’Inps), parrebbe far spostare il tributo in ambito previdenziale, aspetto che potrebbe non essere sufficiente in caso di nuova pronuncia della Corte. È tutto da provare, infatti, che la norma contenga i criteri di ragionevolezza e di solidarietà fra i contribuenti.
Inoltre, come è stato indicato (cfr. Boeri-Nannicini,http://www.lavoce.info/gettito-pensioni-doro-quanto-limitato/) da un ingegnere livornese durante la trasmissione Servizio Pubblico dello scorso Novembre, il risultato del ricalcolo delle pensioni retributive con i criteri del metodo contributivo – pur se con alcune semplificazioni dovute al fatto che i tassi di rendimento del sistema contributivo sono disponibili solo a seguito della riforma Dini – rivela che ad essere scoperti, rispetto al monte dei contributi effettivamente versati, non sono i superpensionati, bensì i detentori degli assegni più modesti, specie quelli integrati al minimo, poiché, in conseguenza dei salari bassi, hanno corrisposto bassi contributi.
Forse è possibile concludere questa disamina soltanto ipotizzando un intervento di altra natura, che colpirebbe le pensioni d’oro come gli introiti degli Alti Papaveri della Pubblica Amministrazione: la revisione delle aliquote dell’imposta sui redditi. Si risponderebbe così alla domanda di maggiore equità ribadendo il criterio di progressività previsto dall’articolo 53 della Costituzione (cfr. Principe, http://www.newnomics.it/2014/01/13/ritornare-alla-progressivita-della-tassazione/) attraverso il ritocco della curva delle aliquote, in modo da riavvicinarsi allo schema contenuto negli scaglioni di imposta prima della revisione operata durante i governi Berlusconi. In fondo, secondo Cottarelli, si sarebbero dovuti colpire ben 2,5 milioni di pensionati per ottenere un gettito significativo, estendendo la platea ben al di là dei pensionati d’oro e generando quasi certamente altri effetti distorsivi in termini di equità della tassazione. Ristabilire tale principio (l’equità!), che pure era contenuto nella riforma del 1973, non si potrà certamente fare con misure tampone e ai limiti della legittimità costituzionale.