[vc_row][vc_column][vc_column_text]di Valentina Dovigo
Come tutto è cominciato
Fino al luglio 2013 nessuno a Vicenza o in Veneto, tranne proprio i più intimi fra gli addetti ai lavori, conosceva i PFAS e la problematica ad essi connessa. Tutti, cittadini, tecnici, medici, politici, siamo stati informati in modo improvviso, alla comparsa sui media delle prime notizie relative all’inquinamento.
La vicenda inizia qualche mese prima, e precisamente nel marzo di quello stesso 2013, quando il Ministero dell’Ambiente segnala ad ARPAV che da uno studio del CNR sarebbe emersa la presenza di PFAS in alcuni corpi idrici e nelle acque potabili delle province di Vicenza, Verona e Padova. ARPAV si attiva con proprie analisi e conferma (in luglio 2013) “un inquinamento diffuso di sostanze perfluoroalchiliche, a concentrazione variabile, in alcune aree delle province citate” e precisamente: nel bacino dell’Adige e del suo affluente Alpone-Chiampo, nella valle dell’Agno comprese le cittadine di Valdagno e Trissino, nell’alta valle del Chiampo, nel bacino del fiume Bacchiglione con la città di Vicenza, ed in un’ampia area fra il fiume Adige ed i Colli Berici ed Euganei. Insomma un inquinamento grave ed esteso, che interessa una popolazione di 300.000 abitanti ed un territorio di circa 150 kmq. Sono contaminate le acque superficiali e di falda come pure i moltissimi pozzi privati ad uso alimentare ed irriguo. In trenta comuni è inquinata la rete di acqua potabile.
Le analisi di ARPAV evidenziano una forte concentrazione di PFAS proprio nei pressi della zona in cui è ubicato lo scarico del collettore consortile Arica, collettore dei reflui industriali di 5 depuratori, provenienti da altrettante zone industriali. Soprattutto carico di inquinanti è quello proveniente dal depuratore di Trissino e più precisamente dallo scarico industriale della ditta Miteni Spa, produttrice storica di composti perfluoroalchilici. Anche le acque di raffreddamento dei processi industriali di Miteni, scaricate direttamente nel torrente Poscola, presentano elevati livelli di contaminazione come pure quelle dei pozzi di attingimento collocati a valle degli scarichi stessi.
Ma cosa sono i PFAS? Detti anche sostanze perfluoroalchiliche, sono un vasto gruppo di composti chimici a base di fluoro utilizzati per rendere resistenti ai grassi e all’acqua materiali come tessuti (es. Goretex ed altri tessuti tecnici), tappeti, carta, pelli, rivestimenti, contenitori per alimenti (es. Teflon per pentole antiaderenti o sacchetti per popcorn da microonde). Vengono utilizzati anche per produrre schiume antiincendio per estintori, ritardanti di fiamma, cere per pavimenti, scioline. Sono composti altamente persistenti nell’ambiente perché in condizioni normali non subiscono idrolisi, fotolisi o biodegradazione.
Inizialmente, nel 2013, dalle autorità coinvolte non emerge la sussistenza di un concreto rischio sanitario per la popolazione, anche se si ravvisa la necessità di adottare adeguate misure di mitigazione e controllo del rischio e comunque di procedere con ulteriori indagini. La pericolosità della contaminazione ed i rischi per la salute umana verranno affermati nel gennaio 2014 dall’Istituto Superiore di Sanità del Ministero della Salute, assieme all’indicazione di valori di performances che non sono assimilabili a limiti di legge ma piuttosto a valori guida.
Sono le associazioni, Legambiente, ISDE, ed i comitati di cittadini a mettere sul tappeto quanto il mondo medico scientifico aveva scoperto in merito alla pericolosità dei PFAS. Dice il dr. Vincenzo Cordiano di ISDE Associazione Medici per l’Ambiente “ a livello medico queste sostanze sono riconosciute come interferenti endocrini. C’è uno studio degli Stati Uniti che evidenzia probabili correlazioni fra esposizione a queste sostanze e squilibri nel metabolismo dei grassi, colite ulcerosa, ipertensione in gravidanza, malattie della tiroide, tumore al rene ed ai testicoli. Uno di questi composti, il PFOS, è riconosciuto come cancerogeno addirittura dal 2009”. Il dr. Cordiano, assieme ad una quarantina di professionisti di varia estrazione, chiese fin dal settembre 2013 l’avvio di un’indagine epidemiologica su tutta la popolazione esposta, scientificamente valida ed affidata a ricercatori indipendenti.
Gli elementi chiave di questa vicenda, cioè la gravità della contaminazione, la pericolosità degli inquinanti, la moltitudine di persone interessate, le responsabilità della ditta coinvolta, sono dunque tutti ben chiari fin dall’inizio.
Eppure si procede a rilento, colpevolmente, si sottovaluta la questione e non tutte le amministrazioni informano debitamente la cittadinanza. Si adotta un sistema molto costoso di filtri a carboni attivi per la rete di acqua potabile e solo dopo molto tempo si proporrà la costruzione di nuove tubature allacciate a fonti pulite (a tutt’oggi 2018 la realizzazione della nuova rete acquedottistica in grado di fornire acqua potabile non inquinata deve ancora essere concretamente avviata). Ci si rimpalla fra livelli istituzionali la responsabilità di adottare un provvedimento legislativo che fissi dei limiti alla concentrazione nelle acque di questi inquinanti (la Regione Veneto li emanerà in modo autonomo solo nel 2017). Si tergiversa sulle responsabilità dell’inquinamento (è il Coordinamento Acqua Libera dai PFAS, un coordinamento di 12 fra associazioni e comitati, che deposita in Procura l’esposto denuncia nel maggio 2014 chiedendo di indagare per lo sversamento di sostanze perfluoroalchiliche con conseguente avvelenamento delle risorse idriche). Si naviga a vista per quanto riguarda l’impatto sulla salute di tali inquinanti e non si assumono tutte le cautele che fin da subito imporrebbe il principio di precauzione. Si considera poco l’aspetto della salute dei lavoratori e/o ex lavoratori della Miteni. Non si affronta mai la tematica della bonifica almeno dei principali siti inquinati.
Il continuo peggioramento
Nell’emergenza la prima misura adottata fu quella di dotare di filtri al carbonio le tubature degli acquedotti che portavano acqua potabile inquinata nella convinzione che un adeguato filtraggio liberasse l’acqua dai composti PFAS. Questi filtri, per poter funzionare bene, hanno bisogno di un’accurata manutenzione e sostituzioni periodiche. Ed in ogni caso la loro funzionalità risulta fortemente compromessa a temperature elevate. Durante l’estate del 2015, i livelli di PFOS ed altri PFAS nelle acque potabili salgono e, nonostante i filtri, arrivano a superare i valori di performances proposti dal Ministero della Salute nel gennaio 2014. Ed ecco l’idea geniale: una nuova delibera regionale che riconsidera la situazione ed alza i valori di performances!
Nell’ottobre del 2015 arriva a conclusione uno studio di Regione Veneto – Arpav — Istituto Superiore di Sanità con i risultati dei rilievi effettuati da agosto 2013 a giugno 2015. Su 53 comuni di cui sono state analizzate le acque potabili e sotterranee, 31 presentavano per i PFAS superamenti dei valori di performances. Risultavano inoltre inquinati i bacini idrografici del fiume Bacchiglione e Fratta Gorzone.
Nel 2016 la situazione si aggrava ulteriormente. La contaminazione idrica attraverso la rete dei pozzi privati potrebbe aver interessato i prodotti agricoli e gli allevamenti zootecnici, per cui l’obbligo di analisi dell’ acqua dei pozzi privati viene estesa a quelli ad uso agricolo e zootecnico. Si mette in campo un ulteriore programma di analisi per verificare quanto sia rimasta interessata la filiera agricolo – alimentare.
In aprile arrivano i primi dati del biomonitoraggio, cioè di una serie di analisi del sangue a scadenza periodica effettuate da luglio 2015 ed aprile 2016 su un gruppo di cittadini residenti nelle zone contaminate e confermano in modo chiaro ed inequivocabile la presenza di sostanze perfluoroalchiliche nel sangue dei residente nelle zone esposte.
Ancora una volta le autorità sanitarie regionali, pur ammettendo la gravità e la complessità di una stima degli impatti sulla salute, tendono a sottovalutare e minimizzare. Ancora una volta sono le associazioni ad intervenire. Legambiente dà avvio ad una raccolta firme per chiedere lo spostamento dei punti di captazione delle acque potabili in aree non contaminate e la fissazioni di limiti di legge a livello nazionale cautelativi della salute delle persone e della qualità dei prodotti agricoli.
ISDE, di fronte al rifiuto delle istituzioni di compiere le opportune indagini epidemiologiche, ha preso in esame le cause di morte, dal 1980 al 2010, di circa 150.000 persone residenti nei comuni della zona rossa, i cui acquedotti, prima dell’applicazione di filtri a carbone attivo, contenevano PFAS in concentrazioni superiori ai limiti di performance. Lo studio ha evidenziato, per entrambi i sessi, un aumento statisticamente significativo del rischio relativo per ogni causa di morte, diabete, malattia cerebrovascolare, infarto del miocardio e malattie di Alzheimer. Nelle femmine, un rischio relativo significativamente superiore a uno fu anche osservato per cancro della mammella, cancro dei reni e malattia di Parkinson. Dopo la pubblicazione di questo studio, la Regione Veneto inizia, a sua volta, una serie di studi i cui risultati confutano ad una ad una le tesi tranquillizzanti fino a quel momento sostenute dalle stesse autorità regionali, confermando nell’area colpita “un moderato ma significativo eccesso di mortalità; un modesto ma significativo eccesso di malattie dell’area cardiovascolare” e “tutta una serie di altre malattie, tumorali e non tumorali, la cui incidenza è nettamente aumentata rispetto alle zone non contaminate da pfas”.
I comitati ed i cittadini danno vita alla prima grande manifestazione: la marcia dei pFiori.
Nel 2017 la relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti conferma nuovamente e definitivamente la gravità della situazione e la necessità di superarla urgentemente. La Commissione ribadisce anche il ruolo della Miteni quale responsabile storica dell’inquinamento e segnala sia che le prescrizioni di Arpav non hanno dato gli esiti sperati perché l’inquinamento è ancora in atto sia che le molecole PFAS a catena corta usate in sostituzione di quelle a catena lunga sono altrettanto inquinanti ed altrettanto pericolose.
Ad essa va ad aggiungersi pochi mesi dopo una relazione del NOE, il Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri, che argomenta, dopo accurate indagini come “la situazione fosse nota alla Miteni fin dal 1990” e che Miteni “nel corso degli anni aveva inizialmente pavimentato i piazzali e successivamente, nel 2005, aveva realizzato una barriera idraulica nel tentativo di bloccare/limitare l’inquinamento in atto”. Ed ancora sempre il NOE “il grave inquinamento accertato e le attività intraprese non sono mai state comunicate agli Enti competenti” e “Miteni ha sempre cercato di ricondurre la contaminazione del 2013 ad un evento inquinante del 1975, senza riferire che tale inquinamento è proseguito fino ad oggi”.
E nel 2018 arriva il GenX. Un nuovo inquinante sempre del gruppo dei PFAS. La ditta Miteni inizia a trattare questa sostanze nell’estate del 2014, quando chiede l’autorizzazione a trattare rifiuti pericolosi, in pratica a lavorare “soluzioni acquose di lavaggio ed acque madri” provenienti nello specifico da un’azienda chimica olandese per recuperare una sostanza pericolosa in esse contenuta: il GenX appunto. Il decreto regionale di autorizzazione (AIA) è del 30/07/2014 e non definisce in alcun modo (proprio perché questi dati mancano tuttora dalle norme nazionali) un limite allo scarico in acqua. La conclusione è semplice e chiara: finiscono in falda grandi quantità di GenX.
Ma come fa l’Autorità Regionale a rilasciare ad un’azienda già individuata come principale responsabile dell’inquinamento da PFAS un’autorizzazione a trattare rifiuti chimici pericolosi contenenti un PFAS di nuova generazione? Come tutti i PFAS, anche il GenX può restare nell’ambiente per decenni, e pur nell’incompletezza delle informazioni a disposizione può essere considerato simile al PFOA, con minori effetti negativi sul sistema riproduttivo ma con effetti cancerogeni anche sul fegato. E come fa sempre l’Autorità regionale a non prevedere all’interno dell’AIA nessun limite al suo sversamento? In un territorio e con una popolazione già pesantemente colpiti? Un atto assolutamente inaccettabile.
Ma è tutta questa vicenda che segna in modo inequivocabile l’incapacità della classe dirigente, tecnica e politica, non solo ad affrontare ma neppure a saper guardare in faccia le emergenze sorte da uno sviluppo industriale disordinato e senza regole. Non solo, segna anche l’incapacità di dar vita ad uno sviluppo moderno, pulito, che non rappresenti un pericolo né per i lavoratori, né per il territorio ed i suoi abitanti.
Solo le associazioni in precedenza citate, ed i comitati di cittadini hanno tenacemente studiato e lavorato per far emergere la verità e formulare un’ipotesi di cambiamento, mentre alla ricostruzione dei fatti un contributo importante è stato dato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e dal Noe.
La svolta ci potrà essere solo con una cultura politica capace, per prima cosa di far arrivare al più presto acqua pulita nella zona inquinata, ma soprattutto capace di vietare la presenza di PFAS, ed altre sostanze pericolose, negli sversamenti industriali e capace di incentivare la riconversione di detti composti in altri composti, innocui per le persone e per l’ambiente . Per ora i PFAS continuano a scorrere quasi indisturbati.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]