Per sostenere una riforma costituzionale (per di più di un terzo della Costituzione) bisognerebbe – crediamo – almeno conoscerla. Nei numerosi dibattiti e incontri di questi lunghi mesi di campagna referendaria abbiamo, invece, constatato il contrario.
In particolare, in un confronto, un sostenitore del “Sì”, a lungo parlamentare e ex segretario di partito, ha sostenuto che il Governo avrebbe ricevuto dalle Camere – con una mozione – l’incarico di farsi promotore di una riforma costituzionale. In realtà, le mozioni del 29 maggio 2013 approvate dalla Camera e dal Senato impegnavano il Governo (all’epoca Letta) soltanto a presentare un disegno di legge costituzionale che prevedesse un percorso particolare e facilitato (magari non del tutto condivisibile ma ordinato) sulle riforme. E, infatti, a fronte della smentita, non ha ripreso la questione.
In un dibattito televisivo, una senatrice della Repubblica ha sostenuto di fronte a me, con ostentata sicurezza, che, a seguito della riforma costituzionale, le leggi di iniziativa popolare dovrebbero essere discusse entro centoventi giorni. Si tratta di una norma inesistente: infatti, l’articolo 71, come riformulato da questa revisione costituzionale, semplicemente rinvia ai regolamenti parlamentari le condizioni e i termini di discussione delle leggi di iniziativa popolare (mentre – si potrebbe aggiungere – assicura la discussione di quelle che il Governo vuole in settanta giorni). Mi ha sinceramente stupito che, una volta fattoglielo notare, non abbia sentito neppure la necessità di scusarsi con i telespettatori.
Ancora: un sindaco marchigiano, mentre spiegavo i calcoli effettuati dalla Ragioneria generale dello Stato circa il contenimento dei costi delle istituzioni, in base ai quali gli unici dati effettivamente quantificabili sono i 49 milioni del Senato (che ne costerebbe ancora circa 450) e gli 8,5 del Cnel, mi ha replicato che questi calcoli sarebbero dovuto al fatto che alla Ragioneria erano stati chiesti solo i risparmi provenienti dalla revisione del Senato. Questo non è vero e infatti l’interlocutore è rimasto muto quando gli ho esposto la nota prot. n. 83572 del 24 ottobre in cui erano passate in rassegna tutte le voci, pur essendo state ritenute le altre non quantificabili allo stato.
Una questione molto richiesta nei dibattiti è stata, invece, quella sulle immunità, perché i cittadini non gradiscono che i politici godano di troppi privilegi. Ora, ciò che colpisce è che questa sarebbe goduta, a seguito dell’approvazione della riforma, anche da consiglieri regionali e sindaci, che spesso incappano in indagini. A fronte di questo, soprattutto nella prima fase, il comitato del sì sosteneva che queste immunità sarebbero limitate alle funzioni parlamentari. Ma non è così: le immunità previste all’art. 68, commi 2 e 3, in relazione a intercettazioni, perquisizioni e restrizioni della libertà personale, sarebbero godute dal parlamentare e anche dal senatore-consigliere e dal senatore-sindaco per tutto e non solo per quanto connesso alla funzione parlamentare.
Uno dei momenti di maggiore imbarazzo è stato quando un collega, in un confronto su “La7”, è arrivato a dire che finalmente diminuirebbero i conflitti tra lo Stato e le Regioni grazie al superamento della potestà concorrente. Sono cose che dispiacciono perché questi non può non sapere che da questa particolare potestà legislativa non derivano particolari conflitti (maggiori sulle materie attribuite oggi alla competenza esclusiva statale) e che queste liti si originano sulla interpretazioni sugli elenchi di materie. Elenchi che con la riforma rimangono e si accrescono, rimanendo causa di contenzioso che sarà incrementato anche dalle controversie sulla clausola di supremazia.
Ma l’ultima – la peggiore di tutte – è quella sull’elezione dei senatori che ora si pretenderebbe a suffragio universale diretto, dopo avere scritto nel testo della possibile futura Costituzione che «i Consigli regionali eleggono i senatori…». Questa è davvero molto – e diremmo disperatamente – rilanciata in queste ore anche sulla base di un testo (che alcuni credono essere una proposta di legge Chiti-Fornaro) che circola in rete e che prevede una modalità di voto dei senatori di dubbia compatibilità con la Costituzione, in parte, come oggi (già) vigente e in parte per come verrebbe ad essere. Si deve riconoscere che almeno su questo molti colleghi costituzionalisti (ma non tutti), anche tra i più entusiasti, si sono fermati, non riuscendo a sostenere oggi ciò che avevano negato ieri: l’elezione diretta dei senatori. Anche perché tra “i costituzionalisti del Sì” si era diffusa l’idea – in realtà non del tutto spiegabile – che se una Camera non votava la fiducia non poteva essere eletta. Cosa che aveva detto, in realtà, anche la ministra delle riforme del Governo il cui premier sostiene da qualche giorno (senza che il testo della riforma sia cambiato) che in realtà i cittadini eleggeranno i senatori. Anche avendo dimenticato – evidentemente – che esiste l’articolo 39 comma 1 del testo di riforma che rimette immediatamente dopo l’eventuale approvazione ogni scelta ai Consigli regionali. In effetti, sembra questa la soluzione più facile ed efficace per sbarazzarsi della scheda per eleggere il Senato. Per quella basta un sì. Chi invece se la volesse tenere voti no: in questo modo non corre rischi.
Da tutto questo emerge che in giro ci sono molte dichiarazioni che non corrispondono al vero o che si rifanno a facili titoli vuoti, come quello del quesito. Quando votiamo la riforma non facciamoci bastare i titoli. Guardiamoci dentro con attenzione.