Scorrendo i giornali nostrani in un giorno di festa, apprendo che gli investitori avrebbero paura della Grecia e per questo scappano dalle Borse europee. Dismettono tanto rapidamente e talmente tanti titoli in euro, che il cambio dollaro/euro scende visibilmente di giorno in giorno. Allora, una prima domanda sorge spontanea: come mai non si ripete lo scenario di tre anni fa, quando a crollare furono solo i titoli greci (e, a seguire, quelli italiani e spagnoli)? E come mai non basta la rassicurazione tedesca che l’uscita della Grecia dall’euro (ammesso che i greci la vogliano) non avrebbe effetti sulla tenuta del sistema monetario?
La risposta più semplice è che forse non è quello il problema, o almeno che non è il problema principale. Il fatto è che tutta l’Europa è in una situazione di stagnazione “alla giapponese”, e a darcene conferma sono proprio i comportamenti degli operatori di mercato, testimoni inconfutabili delle loro aspettative. Ad oggi, gli investitori comprano bond quinquennali tedeschi che hanno rendimento zero, mentre i bond quinquennali i cui rendimenti sono collegati a un indice dei prezzi (index bond) propongono un rendimento intorno al ‑0,35%. Questo ci dice due cose, come sottolinea Krugman: le aspettative di redditività alternativa sono talmente basse che gli investitori pagano il Governo tedesco (piuttosto che l’affitto di una cassetta di sicurezza) per conservare semplicemente la loro ricchezza; le aspettative di inflazione per i prossimi cinque anni sono inferiori o al massimo uguali a un tasso dello 0,3%, che è molto lontano da quel tasso obiettivo del 2%, indicato nei Trattati come utile a garantire una crescita ordinata dell’area euro.
In questo scenario così povero di prospettive, nel breve come nel medio periodo, quello che sta avvenendo nel resto del mondo porta evidentemente ad un peggioramento dello stato delle aspettative. Direi che l’evento più preoccupante è il crollo del prezzo del petrolio: chi ha investito in petrolio, o in titoli collegati ad esso, che sia un operatore pubblico o privato, e in qualunque parte del mondo si trovi, si troverà a corto di liquidità e avrà difficoltà ad onorare i suoi impegni. Chi ha investito in fonti energetiche alternative si troverà costretto a rivedere le sue aspettative di rendimento, a fronte della nuova “convenienza” del petrolio. In generale ci sarà una pressione a un ribasso dei prezzi. Per l’Europa questa eventualità significherebbe correre il rischio di passare da una “stagnazione giapponese” ad una deflazione disastrosa. Ed è per questo che investitori (e speculatori) cominciano a scappare .
Non sempre viene ricordato che la causa scatenante dell’ondata di panico finanziario che attraversò gli Stati Uniti nel 1929 fu un raccolto straordinariamente buono nell’America del Sud, che spinse bruscamente verso il basso i prezzi delle materie prime agricole, che all’epoca rappresentavano un terzo del PIL statunitense. Gli agricoltori USA, che negli anni precedenti si erano indebitati per essere al passo con la crescente meccanizzazione del settore, si trovarono a corto di liquidità e si precipitarono nelle banche per ritirare i loro risparmi; e, infatti, le prime a chiudere furono quelle del Mid West. Ora, fortunatamente, una situazione di questo genere non sarebbe ripetibile: le banche centrali hanno imparato la lezione e sanno cosa fare. Non a caso Mario Draghi si è affrettato a ribadire con forza la disponibilità della BCE al quantive easing, o qualcosa del genere, visto i vincoli che ancora ne imbrigliano la piena operatività come banca centrale del sistema euro.
In ogni caso, nelle condizioni attuali, e ancora di più con un loro eventuale peggioramento, un aumento della liquidità può al massimo fungere da palliativo momentaneo, magari rassicurare qualche investitore meno esigente; ma certo non risolve i problemi di fondo. Soprattutto se i Governi nazionali, davvero con poca lungimiranza, attuano politiche di deprezzamento di un’altra fondamentale risorsa, come il lavoro, contribuendo ad accentuare la pressione verso il basso dei prezzi, esattamente come sta accadendo in Italia.
E allora ha ragione Krugman, e ha ragione Alexis Tsipras: la svolta in Grecia può rappresentare un’occasione per l’Europa, se la costringe finalmente a riconoscere che siamo ormai arrivati al limite di una situazione molto pericolosa e che occorrono misure straordinarie e urgenti per uscirne. Come quelle che nel 1953 prima, e nel 1990 poi, consentirono alla Germania di liberarsi del fardello del debito accumulato nel primo e nel secondo dopoguerra. E davvero sembra sempre meno comprensibile il silenzio della sinistra europea sul tema di una conferenza sul debito, che sta tenendo banco nella campagna elettorale greca. Quale sarebbe, allora, l’Europa solidale e finalmente rilanciata verso uno sviluppo sostenibile di cui parlano i vari leader?
È l’ora di una nuova politica, in cui le persone tornino a riappropriarsi del proprio futuro, riscoprendo le opportunità che un sistema democratico può offrire a tutti i suoi membri, se liberato dalle costrizioni che negli ultimi anni siamo stati convinti a considerare “senza alternative”, in nome di una eccezionalità di cui non si vede la fine.
Ma possiamo davvero farlo? No, dobbiamo farlo.