La notizia della candidatura alla Camera di Davide Mattiello, presidente della fondazione Benvenuti in Italia, da sempre animatore nel volontariato torinese e non solo, era stata uno dei fiori all’occhiello della campagna elettorale democratica lo scorso gennaio. «Questo PD meritava di vincere», dice l’oggi onorevole Mattiello. «Le scelte sono state fatte, non sono solo state proclamate: dalle primarie per il premier alle primarie per i parlamentari, erano scelte tutte rischiose, e sono state avversate da molti colonnelli del partito. Nel PD c’è una potenzialità straordinaria». Voluto da Pier Luigi Bersani, Mattiello (che in Parlamento siede alla commissione Antimafia) traccia un parallelo tra l’ex segretario del PD e Giuseppe Civati, che si candida a succedergli, e che egli stesso sostiene: «Civati ha attenzione umana alle persone, memoria dei fatti, capacità di collegamento e di costruire una relazione politica tra gli individui», argomenta Mattiello. «Pippo non finge di ascoltare il suo interlocutore, questo fa la differenza. Un’analoga attenzione l’ho ritrovata in Bersani, a cui dissi che votare la fiducia a questo governo mi avrebbe fatto morire politicamente, non sarei stato utile a nessuno: così Pier Luigi ha parlato col capogruppo Speranza, per dispensarmi e consentirmi di uscire dall’aula. Bersani allora mi ha dedicato attenzione, si è fatto carico di un problema. Così è Civati: mi ha colpito la sua capacità di avere a cuore le persone come “prima e più importante forma di servizio”, di carità, per usare il vocabolario cattolico e la riflessione portata da una come Simone Weil, cara a coloro che condividono il mio sguardo. La fondazione è lo strumento che a Torino abbiamo provato per innovare le forme della politica anche fuori dai partiti, contribuendo alla loro attività, come gli advocacy group statunitensi».
Quello che Mattiello ha fatto in questi anni lo qualifica come esponente di quella che i politici amano chiamare società civile, per distinguersene. Otto o nove mesi di Parlamento non lo hanno cambiato: che idea si è fatto della classe politica di professione, vista dal dentro? «Non è vero che in Parlamento non si lavora, anzi si lavora assai, ma sulla base della volontà politica di chi ha in mano il gioco da quando i 101 hanno impallinato Prodi, e sembra tuttora maleducazione chiederne conto. Non è moralismo: mi sono reso conto, arrivando in Parlamento, quanto poco io possa contare nei processi decisionali (che sono scelte politiche precise, e non inevitabili). Per farlo tra l’altro ci vuole una competenza tecnica che non ho ancora raggiunto. Oltretutto i processi decisionali sono basati sulle appartenenze a questo o quel gruppo: nessuno pensi di arrivare là e formare la decisione sulla base del dibattito in aula. Questo avviene altrove, e le Camere sono solo il luogo della rappresentazione della decisione assunta. Quindi il tema è: dove si formano le decisioni? Come fare a contare nella formazione delle decisioni? Anche per questo motivo, è importante il congresso del PD e la candidatura di Pippo Civati: i processi decisionali sono interni al partito, a seconda di chi ne tiene le redini questi vanno in un senso anziché in un altro. Non mi scandalizzo che non si sia votata la sfiducia a Cancellieri, perché non poteva che succedere questo: volevamo che il PD assumesse la decisione su di sè, Pippo è stato coerente, coraggioso e concreto anche sul piano formale. In quindici su 400 abbiamo sottoscritto il documento, gli altri ci hanno spernacchiato: la battaglia dev’essere dentro il partito, non contro. Sto scommettendo sulle primarie e sul congresso, senza la candidatura di Pippo mi sentirei impotente e disarmato: mi dà un filo di speranza per il futuro, in cui uno come me possa contare assieme agli altri nei processi decisionali del partito. Il PD è rimasto l’unico partito che c’è in Italia, con tutte le fatiche di un’organizzazione complessa».
Un esempio delle dinamiche parlamentari è dato dalla riforma dell’articolo 416 ter, una campagna per la quale Mattiello si è speso molto, prima con “Riparte il futuro” e poi da relatore. «Ora siamo a un punto morto. Il lavoro alla Camera è stato buono, perfettibile come alcuni si sono affrettati a sottolineare, ma senza che facessimo le barricate. Il testo riformato, uscito all’unanimità dalla commissione giustizia ai primi di luglio, è arrivato in aula il 15 dello stesso mese e approvato l’indomani, sempre all’unanimità. Un fatto straordinario, se si considera che il progetto partiva da una iniziativa di legge prima popolare (Riparte il futuro) e poi parlamentare, rispettando i tempi che si era dato all’inizio: finora abbiamo votato per lo più provvedimenti del governo, nella XVII legislatura. Il 23 luglio il testo doveva approdare al Senato, in commissione Giustizia riunita in sede deliberante, ma è scoppiata la polemica su Repubblica, la presunta rivolta dei pubblici ministeri, due ore prima della seduta commissione, con un tempismo pazzesco dopo che c’erano stati solo applausi, commenti positivi e lusinghieri. I senatori, travolti dalla polemica e con strumentale malizia, hanno bloccato tutto: il centrodestra non aspettava altro che di insabbiarla, il PD come al solito si è diviso, c’è una parte rema contro. Addirittura il capogruppo Zanda ha dichiarato che Saviano aveva ragione e che la riforma non andava bene, senza chiamare né me, né il suo omologo Speranza, né l’on.Ferranti. Secondo me se ormai se ne riparla nella prossima legislatura, con un’altra maggioranza».
Hanno detto che il documento di Civati, pur lungo e meticoloso, non si espone con dovizia riguardo le mafie. «I documenti sono importanti, perché compromettono. La nostra mozione è articolata, e va bene così: la credibilità di questo o quel testo dev’essere data soprattutto dalle persone che lo sostengono, perché un buon documento lo possono scrivere tutti, come una galleria delle buone idee. Il nostro problema non è trovare altre buone idee per cambiare il Paese, ma affidarle a persone credibili e competenti. Si vada quindi a guardare chi sostiene le mozioni, più che i loro paragrafi, anche in tema di mafie».
Uno dei tuoi slogan è “siamo Molti”: chi sono i molti, chi vedi dalla tua parte, chi senti esserti vicino? «Lo slogan è nato all’interno della nostra fondazione, proprio per il passaggio elettorale dello scorso inverno. Era una risposta all’agenda Monti: con l’agenda Molti, il nostro contributo in Parlamento sarebbe andato in una direzione molto differente da quella del premier uscente, perché c’è ancora bisogno di un’altra agenda, di una riflessione ampia sulla politica economica, l’Europa, il debito. “Siamo Molti” fa riferimento alla grande rete di Benvenuti in Italia, delle cooperative sociali, dei giovani che tra impresa e accoglienza si riconoscono in nosto modo di lavorare. Abbiamo fatto tante iniziative, e anche persone che non avrebbero votato per il Partito Democratico lo hanno fatto perché candidava me».
#Civoti 22: Davide Mattiello