Non sapeva usare forchetta e coltello. Allora gli abbiamo insegnato come usarle. Quel bambino aveva dodici anni. Sappiamo solo che è eritreo. Sappiamo dove lo abbiamo incontrato e conosciamo il suo sguardo timido e triste. Non sappiamo nient’altro, a parte che è venuto da solo, facendo un viaggio di migliaia di chilometri e lasciando la sua famiglia in nome di una speranza: quella di ricominciare. Non so se chi parla di pace, nei salotti televisivi o negli Hotel, ha visto e capito lo sguardo di quel bambino. C’è chi parla di pace: pace in Siria; pace in Eritrea, in Somalia, in Nigeria e così via. Come fare la pace non si sa, perché non è dato conoscere le motivazioni della guerra. Quest’ultima, la guerra, è depoliticizzata: è arrivata la guerra, è scoppiata la guerra! Non si sa chi l’ha portata, né qual è la storia che ha mosso alcuni contro altri. Così come i bombardamenti in Siria: sono cascate le bombe. “Sì, ma da quale aereo?” — domanda qualcuno. Altri potrebbero replicare: “ma è così importante? Non basta dire che qualcuno ha bombardato e altri sono morti?”. La risposta è no, non basta.
Quando si guarda a questi paesi, quelli del cosiddetto terzo mondo o extra occidentali, le categorie morali e politiche di cui l’Europa, e l’occidente in generale, ha tanto scrupolo saltano. Non siamo poi tutti convinti che in Eritrea ci sia una dittatura, né che in Siria il governo abbia la responsabilità maggiore dell’ecatombe o che in Egitto dovremmo davvero interrompere i rapporti con al Sisi perchè ammazza i dissidenti. No, bisogna pensarci. I nostri scrupoli saltano perché gli “altri”, quelli tanto odiati dagli xenofobi di casa nostra, non sono mica come noi.
Poi c’è qualcuno che parla di pace e lo fa in una maniera superficiale: vogliamo la pace, basta guerra – dicono. Se gli si chiede “come è scoppiata?”, rispondono “che c’entra, basta guerra è sufficiente!”. Allora capite bene che non ci può essere, in nessun luogo, nessuna pace che non abbia in sé giustizia. Che pace possiamo dare a quel giovane eritreo di dodici anni che ha perso tutto se esigiamo una equa redistribuzione delle colpe, senza giudicare davvero i colpevoli, come chi lo ha obbligato a scappare? In ultimo, vorrei dire alla politica di provare a capire le motivazioni delle vittime – che ci sono sempre – e di non classificare “la guerra” come qualcosa di naturale che non ha un perché. Se facciamo così tradiamo quel senso di giustizia che la gente vuole, che esige, dalla Siria alla Somalia; dal Congo passando dalla Libia per arrivare nelle carceri in cui vengono rinchiusi i dissidenti, di tutti i colori e fede.