Non è solo Roberto Rosso.
Il primo fu Giuseppe Caruso, presidente del consiglio Comunale di Piacenza, esponente di lungo corso di Fratelli d’Italia, che “sarebbe parte integrante dell’organizzazione criminale che operava tra le province di Reggio Emilia, Parma e Piacenza”, con «un ruolo non secondario nella consorteria», secondo il GIP. In qualità di dirigente dell’ufficio dogane di Piacenza — secondo ilpiacenza.it — sarebbe accusato di aver agevolato una truffa per far ottenere fondi europei all’organizzazione ‘ndranghetista.
Arrestato il 25 giugno 2019.
Poi Enzo Misiano, consigliere comunale a Ferno (provincia di Varese).
Presidente della commissione commercio e attività produttive, posizione nella quale — si legge negli atti dell’accusa — “poteva controllare per conto delle cosche gli investimenti e i terreni appetibili dai clan per la costruzione dei parcheggi.”
Un interno alla ‘Ndrangheta, secondo gli inquirenti: “quando i capi della cosca Farao-Marincola di Cirò Marina, che controllava la locale di Lonate Pozzolo e Legnano, venivano a Milano per i summit di ‘ndrangheta — racconta Next Quotidiano — era lui a fare da autista; con particolare assiduità infatti accompagnava il boss Giuseppe Spagnuolo agli incontri con gli emissari locali.” Accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Arrestato il 4 luglio 2019.
Poi è venuto Alessandro Nicolò, capogruppo alla regione Calabria, accusato di associazione mafiosa. Eletto con Forza Italia, era passato a Fratelli d’Italia nel marzo del 2018, subito dopo le politiche. Aveva partecipato a un evento di presentazione dei nuovi consiglieri di FDI (sette in totale), a Roma, alla presenza di Giorgia Meloni.
Accusato di associazione mafiosa, concorso esterno e tentata corruzione.
“All’alba — scriveva il Manifesto — la polizia, su mandato della Dda di Reggio lo ha prelevato dalla sua abitazione e tradotto nel carcere della città dello Stretto. Le accusa contestate agli indagati sono a vario titolo.”
Arrestato il 1 agosto 2019.
Quindi il turno di Giancarlo Pittelli, “un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia”, scriveva Giorgia Meloni solo qualche settimana fa. Avvocato ed ex parlamentare, è una delle 334 persone coinvolte nell’operazione “Rinascita-Scott”, la meritoria inchiesta portata avanti dal PM Gratteri. “Il boss Luigi Mancuso, dell’omonimo clan di Vibo Valentia, — scrive l’Espresso — godeva di «entrature in ogni settore sociale, anche nei più alti e insospettabili, grazie soprattutto alla dedizione assoluta assicuratagli negli anni dall’avvocato ed ex onorevole Giancarlo Pittelli». Che era molto rispettato dal boss del vibonese: «Io lo chiamo col tu, e lui mi da del voi», raccontava in una conversazione telefonica intercettata. Il capo clan si sarebbe fidato così tanto dell’avvocato da affidargli i parenti più stretti: «Avvocato, se succede qualcosa a mia figlia ci siete voi».
Arrestato ieri, 19 dicembre 2019.
Non è solo Roberto Rosso, ma oggi è stato il suo turno. Secondo le risultanze delle indagini — racconta l’Huffington Post — è sceso a patti con i mafiosi. E l’accordo ha avuto successo” ha detto Francesco Saluzzo, procuratore generale del Piemonte. Aveva trovato un accordo con la
’ndrangheta per ottenere un “pacchetto di voti” in cambio di 15 mila euro: di queste somme concordate con gli intermediari delle cosche, Rosso ne versò poco meno di 8 mila, in due tranche da 2900 e 5000 euro. Roberto Rosso, della cui vicenda oggi erano pieni i giornali. Vicenda alla quale Giorgia Meloni ha finalmente deciso di reagire, con un lungo post.
Al di là del “vomito” e del “voltastomaco”, però, rimane un problema enorme per Fratelli D’Italia: un problema di modalità della selezione della classe dirigente.
Una strategia che prevede l’entusiastico reclutamento di consiglieri eletti in altri partiti ma pronti a passare sul cavallo che dà più possibilità di rielezione, di piccoli potentati locali in cerca di nuovo alloggio, in grado di assicurare il trasloco del più o meno piccolo pacchetto di voti a loro collegato.
E se questo sistema clientelare, che conosciamo bene, a volte sfocia nella cronaca giudiziaria (come in casi come questi), più spesso — per più tempo, almeno — rimane sotto traccia. Fino a quando non emerge in superficie e genera mostri.
Successe solo qualche anno fa, in Lombardia. La giunta era quella di Formigoni. L’assessore non si chiamava Rosso, ma Mimmo Zambetti, “quello che gli ‘ndranghetisti facevano piangere e sfottevano ricattandolo per i voti che gli avevano concesso”, scriveva LInkiesta.
Formigoni diceva di non sapere nulla.
Qualche mese dopo, fu costretto a dimettersi.