Come reagirà il governo italiano alle previsioni sulla crescita globale del report di Moody’s? La doccia gelata del secondo trimestre 2015 circa la crescita del PIL, pari allo 0,2%, inferiore persino al risultato della Grecia (che pure ha esperito l’onta del quasi default, la chiusura dei bancomat e il razionamento del denaro contante), è confermata dall’analisi dell’agenzia di rating, secondo la quale il nostro paese — in compagnia della Francia — non supererà l‘1% su base annua. Il ministro Padoan potrebbe ribattere che tutto si sta svolgendo secondo quanto scritto nel DEF (nel quale il governo descrisse prudentemente una crescita dello 0,7 su base annua). Vero, tuttavia quel che afferma Moody’s è più preoccupante e dovrebbe suggerire riflessioni a lungo termine che invece sembrano non emergere.
Innanzitutto, il periodo che si sta per chiudere reca in sé condizioni favorevoli forse irripetibili, come il basso prezzo del greggio, tassi di sconto praticamente a zero, bassa inflazione. Le banche centrali occidentali, trasformate in stamperie, hanno iniettato una mole di denaro che non ha avuto un effetto uniforme sulla produzione dei paesi occidentali: se gli USA conosceranno una crescita consolidata intorno al 2,4% nel 2015 e del 2,8% nel 2016, l’area Euro si attesterà intorno all’1,5%. Secondo Moody’s, non ritorneremo ai livelli pre-crisi almeno nei prossimi cinque anni, mentre la crescita dell’Italia nel 2016 non si discosterà dal risultato previsto per il 2015.
Il sito tradingeconomics.com calcola per l’Italia una crescita annuale di appena lo 0,49%: al di sotto sia della previsione di Moody’s, sia di quella del governo. Il terzo trimestre dovrebbe chiudersi con un risultato modesto (+0,2%), mentre nel quarto trimestre non ci si dovrebbe allontanare dallo 0,3%. La curva, così disegnata (in nero nel grafico qui sotto), rappresenta una crescita debole, insufficiente, lontana dagli obiettivi richiesti per portare fuori il paese dagli abissi del periodo 2008–2014.
Previsioni | Attuale | Q3/15 | Q4/15 |
GDP Annual Growth Rate (PIL) | 0.5% | 0.2% | 0.3% |
Tutto ciò, naturalmente, non può che avere un solo effetto: la ripresa occupazionale non ci sarà. Era stato lo stesso presidente dell’ISTAT, Alleva, ad anticiparlo nella sua intervista al Fatto Quotidiano del 6 Agosto scorso, ovvero che con tassi di crescita sotto l’1% non si creano nuovi posti di lavoro. Ciò collide fortemente con la linea comunicativa (cos’altro sarebbe?) adottata dal governo, in special modo dal Ministro del Lavoro Poletti, tramite le pubblicazioni periodiche dei dati sulle attivazioni contrattuali. I festeggiamenti circa il boom dei contratti a tempo indeterminato (ricorderete il +36% sbandierato in ogni dove la scorsa settimana) paiono tanto fuori luogo se accostati all’andamento del tasso di disoccupazione, che non si schioda dal 12,7%. Dinanzi alla previsione che la crescita dei prossimi anni sarà lenta, tale da non assorbire i lavoratori espulsi con la crisi del 2008, e che altri fattori di instabilità si affacciano oltre alla crisi greca (in primis, la situazione dello Yuan, sul quale le tensioni del mercato non si sono affatto diradate dopo le due svalutazioni decise dal governo cinese, tanto che il medesimo è dovuto correre ai ripari più volte in questi giorni, difendendo la moneta da un eccessivo deprezzamento), occorre un coraggioso cambio di paradigma che non può essere racchiuso nei canonici centoquaranta caratteri di Palazzo Chigi.