[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1491464698218{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Da quando il governo ha deciso di evitare il referendum sul lavoro cancellando per decreto i cosiddetti voucher si moltiplicano gli attacchi alla Cgil, indicata quale responsabile del ritorno del lavoro “nero”, solo per il fatto di essere stata promotrice della consultazione referendaria. Eppure, i dati dell’INPS e dell’ISTAT indicano che il lavoro nero non si è ridotto significativamente neppure nel periodo in cui i voucher sono stati applicati in modo più consistente (2013–2015). Nella maggioranza dei casi, i voucher sono stati utilizzati per sostituire lavoro contrattualizzato, stabile o discontinuo che fosse, ossia in molti casi hanno favorito l’aggiramento della contrattazione collettiva che prevede un minimo salariale, delle garanzie, dei diritti fondamentali, quali il riposo o la malattia. In termini ossimorici, ha istituzionalizzato l’irregolarità lavorativa. Eppure le alternative per regolarizzare il lavoro occasionale non mancano: dal lavoro a chiamata al tempo determinato.
Anche per quanto concerne il secondo quesito referendario, ossia la responsabilità degli appalti, la questione tocca un argomento importante. In Italia, nel sistema degli appalti lavora circa un milione e mezzo di persone. Si tratta spesso di un lavoro povero, insicuro e senza tutele, nel quale la catena di appalti e subappalti scarica sulle spalle dei lavoratori la riduzione dei costi perseguita dalle imprese provate dalla crisi economica e dal fisco. In risposta alla mobilitazione referendaria, il governo ha emanato il decreto-legge n. 25/17, in vigore dal 17 marzo, che modifica le disposizioni sulla responsabilità solidale in materia di appalti. Ora le imprese committenti dovranno rispondere direttamente dei crediti retributivi e contributivi dei lavoratori dell’impresa appaltatrice. Questo significa che anche i lavoratori coinvolti in processi di esternalizzazione potranno godere degli stessi diritti di quanti lavorano nell’azienda committente.
Spesso si è accusata la Cgil di criticare la politica del lavoro vigente senza proporre delle valide alternative. Eppure, proprio la Cgil ha promosso la “Carta dei diritti universali del lavoro”, una proposta di legge di iniziativa popolare che ha raccolto più di un milione e trecentomila firme ponendosi quale obiettivo la garanzia di sicurezza per un mondo del lavoro finalmente riunificato, fra lavoro autonomo, dipendente e partite IVA. Si tratta di un’innovazione molto importante, che smentisce la vulgata orientata a identificare il sindacato in generale – e la Cgil in particolare – con la conservazione dell’esistente. Per la prima volta, la Cgil ha deciso di spendersi per promuovere una legge di iniziativa popolare per intervenire in merito ad una delle grandi questioni della contemporaneità, qual è il lavoro. E, attraverso una mobilitazione di ampiezza straordinaria, smentisce quel luogo comune che la vedrebbe afflitta da irreversibile declino – perlomeno sotto il profilo dell’iniziativa politica se non sotto quello della rappresentanza.
Proprio perché il buon funzionamento delle istituzioni rappresentative è indispensabile per migliorare la qualità della democrazia del nostro Paese, riteniamo fondamentale valorizzare quelle proposte di legge di iniziativa popolare che possono dare nuova linfa al confronto fra le forze parlamentari e vediamo con grande favore la mobilitazione in tal senso del sindacato. La stessa Costituzione repubblicana individua chiaramente, sin dai suoi primi articoli, il nesso inscindibile fra partecipazione e lavoro (si pensi al celebre comma 2, art. 3 della Costituzione). L’art. 71 della Costituzione sostiene che “il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno 50.000 elettori, di un progetto redatto in articoli”. Purtroppo sappiamo che le Camere si dimostrano refrattarie a discutere tali proposte di legge. Anche in questa legislatura ci sono state iniziative orientate a mutare tale situazione: ad esempio, la proposta avanzata da Giuseppe Civati (atto della Camera 2462 Civati) prevedeva di sottoporre a referendum popolare per l’approvazione quella proposta di legge corredata da almeno ottocentomila firme, raccolte anche in via telematica, che non fosse approvata entro dodici mesi dalla presentazione o che fosse approvata in un testo che non ne rispettasse i principi ispiratori o i contenuti normativi essenziali. La partecipazione rafforza il senso di appartenenza alla comunità politica. E a noi pare particolarmente opportuno, nell’attuale contesto di forte sfiducia nei confronti delle istituzioni, discutere seriamente di proposte cosiffatte: si tratta di uno dei pochi modi ancora percorribili per favorire la partecipazione delle cittadine e dei cittadini e un confronto più costruttivo fra rappresentanti e rappresentati.
Marco Almagisti
Paolo Graziano[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]