In ogni comunità dovrebbero essere presenti, sempre. Una biblioteca e un asilo nido. Tante panchine e luoghi di aggregazione. E un programma culturale di rieducazione civica. Questa società votata al consumo si consuma, degrada e disperde il senso comune, l’appartenenza a qualcosa di più grande dell’io.
Non sempre ci sono queste cose, in tutte le comunità. Spesso troviamo centri commerciali, rotonde e parcheggi. Sontuose opere pubbliche e cemento, tanto cemento. Molto privato e poco pubblico. Molti luoghi e oggetti da attraversar comprando, pochissimi spazi di libertà collettiva.
In ogni comunità dovrebbe esserci tempo per manutenere la storia, gli edifici e le tappe di un passaggio nei secoli che tralasciamo, sacrificandolo alla voracità del tutto e subito, in questo presente liquido e asfissiante, che non consente deroghe al passato e castra il dialogo con un futuro che risulta impossibile anche solo da immaginare.
In ogni comunità bisognerebbe prendersi cura degli spazi pubblici, che sono di tutti. Farlo con la costanza e la pazienza che è solo di chi sente il dovere (meglio, la passione) di fare qualcosa per gli altri, capendo che è fare un favore anche a sé stessi. Perché ci si salva insieme, e non sulla pelle di qualcuno che è sempre altro da sé.
In un bellissimo articolo uscito qualche giorno fa su “La Repubblica” Melania G. Mazzucco sostiene che: “Il rispetto nasce dalla devozione. E la devozione non dalla regola, che tutti invocano pur sapendo che essa in Italia ammette l’eccezione, e comunque vale per tutti tranne che per me. Nasce dall’umiltà e dal senso del limite. La consapevolezza che una cosa antica è fragile, e preziosa perché ha richiesto lavoro, fatica, denaro. Che per costruire occorre tempo, e per distruggere un attimo”.
Le nostre città non ci piacciono più. Ci stiamo svegliando da un incantesimo che ci ha annebbiato la vista troppo a lungo. Accusiamo i nostri sindaci di inefficienza e sprechi, senza accorgerci che il degrado è come un puzzle di cui siamo, molti di noi, inconsapevoli pezzetti (quella cartaccia gettata per terra, quell’auto parcheggiata in doppia fila, quel favore chiesto all’amico che lavora in posta…).
E allora se vogliamo provare ad uscire dall’angolo dobbiamo re-imparare il linguaggio della comunità. Quell’unico branco per il quale vorrei lottare, attivamente, e costruire palafitte di onestà e di inclusione sociale. Per il quale sarei pronto a battermi con ogni mezzo (pacifico), nella costruzione lenta e positiva di un’altra città e di un’altra società. Laica e di sinistra. Senza aspettare l’uomo forte di turno (guarda caso, sempre un uomo) a cui firmare una delega in bianco nella certezza che nulla cambierà. Senza accontentarmi di stare in disparte ad osservare (e criticare) lo scorrere impazzito e claustrofobico delle cose. Ma provando a mettermi in mezzo, dentro le righe del campo. Mettendoci la faccia, con discrezione e al tempo stesso ostinazione. Teneramente inflessibili! Perché anche questo, credo, è di sinistra.