È stata pubblicata la sentenza della Corte costituzionale con cui è stato dichiarato inammissibile il referendum sui licenziamenti illegittimi.
Si tratta della n. 26 del 2017, dalle cui prime righe si comprende immediatamente che il verdetto non è stato facile, che il Collegio si è diviso. La relatrice, giudice Sciarra, è stata infatti sostituita per la redazione dal vicepresidente Lattanzi, come normalmente avviene soltanto nei casi in cui la soluzione proposta dal relatore risulti minoritaria.
Nel merito, i motivi di incostituzionalità – come avevamo paventato – sono due: il carattere manipolativo del quesito e la sua assenza di omogeneità.
Il primo aspetto è stato valutato indubbiamente dalla Corte con un certo rigore, in questa occasione, almeno in relazione alla norma su cui la motivazione si sofferma: quella relativa ai limiti dimensionali delle aziende alle quali si applica la disciplina dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori. Infatti, è vero che il tentativo di estendere a tutte le imprese il limite oggi previsto per quelle agricole non rappresentava l’espansione di un criterio già previsto in via residuale (per la generalità delle imprese), come nel caso della sentenza n. 13 del 1999, che giunse infatti alla dichiarazione di ammissibilità, ma è anche vero che non si trattava di un limite ricavato da tutt’altro contesto normativo, come nel caso della sentenza n. 36 del 1997, con cui vennero per la prima volta indicati i termini in cui i ritagli di testo rendono un quesito referendario inammissibile.
Rispetto al requisito della omogeneità (cioè la necessità che la domanda sia univoca, in modo tale da consentire quella sola risposta che l’elettore ha a disposizione), invece, la sua mancanza pare, in effetti, più evidente. Infatti, la domanda concerneva l’abrogazione sia del decreto legislativo n. 23 del 2015, che sostituisce l’art. 18 per gli assunti dopo l’entrata in vigore dello stesso, sia di ampie parti dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, come modificato da successive leggi degli ultimi anni (in particolare la legge Fornero), che continua ad applicarsi per gli assunti fino alla suddetta data. Ora, la Consulta precisa che «i due corpi normativi […] sono all’evidenza differenti, sia per i rapporti di lavoro ai quali si riferiscono (iniziati prima o dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2015), sia per il regime sanzionatorio previsto». È per questo che le richieste sono «disomogenee e suscettibili di risposte diverse». Infatti, «l’elettore potrebbe ben volere l’abrogazione del decreto legislativo n. 23 del 2015 […], senza però volere allo stesso tempo anche la radicale modificazione dell’art. 18, oggetto di richiesta abrogativa».
Ora, dobbiamo ricordare che, nell’estate 2015, chi scrive, Giuseppe Civati, Luca Pastorino e altri otto elettori, depositarono presso la cancelleria della Corte di Cassazione una richiesta di abrogazione del decreto legislativo n. 23 del 2015, che avrebbe eliminato la tutela attenuata per i licenziamenti illegittimi degli assunti successivamente all’entrata in vigore di quel decreto. Ecco, in base all’odierna sentenza, risulta chiaramente che quel quesito non avrebbe presentato né il limite della manipolatività né quello dell’omogeneità (mai eccepiti, in effetti, quando si richiede la abrogazione di un intero testo normativo), risultando ammissibile.
Quindi, se, nell’estate 2015, alle forze di Possibile si fossero unite quelle di chi ha raccolto le firme per il referendum respinto, i cittadini avrebbero potuto votare (già nella scorsa primavera, con il quesito sulle trivellazioni in mare) per restituire ai lavoratori una tutela migliore contro i licenziamenti illegittimi.