Non è la prima volta che, nel merito, ci confrontiamo con Milena Gabanelli su una questione che ci sta molto a cuore, e cioè quella dell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo, e lo facciamo esattamente perché crediamo nel suo impegno e nel suo attivismo nel divulgare buona informazione. Già nel dicembre scorso indirizzammo alla sua attenzione una lettera con la quale criticavamo il modello di accoglienza da lei proposto, fondato sulla presenza di centri di accoglienza di grandi dimensioni dove risiedere per sei mesi, quali luogo di passaggio a un sistema di accoglienza diffuso.
Quest’oggi Milena Gabanelli torna sull’argomento, riproponendo quello stesso modello e spingendosi molto oltre nell’analisi. Pur non volendo tornare su quanto già affrontato (ma volendoci concentrare su quanto di nuovo viene proposto da Gabanelli), non possiamo fare a meno di notare questo passaggio: «la gestione complessiva continua a stare nelle mani di cooperative e associazioni, dove le competenze si improvvisano, e allora è difficile individuare il soggetto che sta prendendo la via della radicalizzazione». Si tratta di un’affermazione solo in parte corretta, dato che se è vero che c’è chi non fa bene il proprio lavoro, è altrettanto vero che tanti sono quelli che operano benissimo e lo fanno spesso all’interno del Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati, il quale prevede un’accoglienza diffusa ed elevate competenze da parte degli operatori: nulla viene lasciato al caso e tutto è rendicontanto.
Se pensiamo, inoltre, a un episodio di radicalizzazione non possiamo che pensare alla storia di Anis Amri, che pare abbia subito questo processo quando si trovava in carcere: un luogo di detenzione e di esclusione dal tessuto sociale, molto più simile a un CIE, per intenderci. E con dei profili che possono avvicinarlo a un grande centro di accoglienza, per la concentrazione di persone e l’estraneità al tessuto sociale.
Il problema vero sta nel ribaltare i numeri, nel pretendere che lo SPRAR diventi l’unico sistema di accoglienza, relegando a una parte marginale i Centri di Accoglienza Straordinari (CAS), che troppo spesso hanno lasciato spazio a chi dell’accoglienza interessa esclusivamente in quanto business. Uno spazio che si espande enormemente con l’aumentare delle dimensioni dei centri, un po’ come succede con le grandi infrastrutture.
Guardiamo, però, a quanto di nuovo scrive Milena Gabanelli, e non possiamo che rimanere esterrefatti.
Negli ultimi 3 mesi però è arrivato il ministro Minniti, che ha firmato accordi con le autorità libiche per fermare i trafficanti di uomini, garantire il pattugliamento delle frontiere, e l’allestimento di campi d’accoglienza in Libia dove fare l’identificazione. Sul piatto ha messo 200 milioni, e il sostegno di Bruxelles. Se andrà bene (ce lo auguriamo), si rallenteranno i flussi per un po’, e in Europa l’Italia avrà un altro peso.
Da una semplice e veloce lettura dell’accordo tra governo italiano e governo libico emergono un sacco di criticità rispetto a quanto Milena Gabanelli si augura che accada. Tra le altre cose, l’accordo chiarisce che i campi di accoglienza temporanei in Libia saranno «sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico» e la Libia è un paese che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e dal quale arrivano quotidianamente notizie aberranti rispetto al trattamento dei migranti: non prevedere alcun ruolo di garanzia da parte di istituzioni terze è un vuoto gigantesco rispetto alla tutela dei diritti umani. Significa esporre i rifugiati (dalla Libia passa la rotta proveniente dal Corno d’Africa, cui riconosciamo protezione in quasi la totalità dei casi) a ulteriori sofferenze e violenze.
L’Africa è una polveriera: negli ultimi 6 anni si sono aperti 15 nuovi conflitti, e l’Egitto «ospita» 5 milioni di migranti pronti a partire per l’Europa. Faremo accordi anche con il Cairo, ma pensare di bloccarli tutti è un’illusione.
In primo luogo, vorremmo capire su quali fonti si basa l’affermazione secondo la quale in Egitto ci sarebbero 5 milioni di migranti pronti a partire per l’Europa: si tratta di una cifra ripetuta a più riprese da Al Sisi («L’Egitto sta fornendo assistenza umanitaria a circa cinque milioni di rifugiati per lo più siriani»), ma smentita clamorosamente dai dati UNHCR, più volte, che parla di circa 250mila rifugiati e richiedenti asilo. Secondo le Nazioni Unite, gli stranieri residenti in Egitto sarebbero stati, nel 2015, circa 500mila. Al Sisi, infine, sarebbe lo stesso di Giulio Regeni: vogliamo affidargli la gestione esclusiva dei profughi così come fatto con la Libia?
Minniti ha potenziato le commissioni per il diritto all’asilo per ridurre i tempi di definizione dello status (oggi ci vogliono 2 anni), nei processi ridotto il giudizio di 1° grado, ha istituito piccoli centri di «sorveglianza» per quei 1600 clandestini, il cui rimpatrio forzoso è complesso. Sta sveltendo le modalità di rimpatrio degli irregolari offrendo una contropartita ai Paesi d’origine.
Esatto: è quello che ha fatto Minniti. Creare un “diritto speciale ed esclusivo” per i richiedenti asilo, eliminando un grado di giudizio che agli italiani è garantito e riducendo le garanzie procedurali. I “piccoli centri” saranno centri con una capienza media di ottanta persone e saranno centri di detenzione: ci sono già nel nostro ordinamento e si chiamano CIE. Ed è vero: Minniti sta sveltendo le modalità di rimpatrio, siglando accordi di politica estera con paesi di provenienza che difficilmente possiamo definire “sicuri” senza passare dal Parlamento, come prevede invece l’articolo 80 della Costituzione.
Fa impressione, inoltre, che Milena Gabanelli utilizzi il termine “clandestini”. Fa molta impressione, anche alla luce del fatto che la Carta di Roma, protocollo deontologico per giornalisti concernente il tema migratorio, prevede l’impegno, al primo punto, ad «Adottare termini giuridicamente appropriati sempre al fine di restituire al lettore e dall’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti, evitando l’uso di termini impropri». Tra i termini impropri, si legge testualmente, figura quello di «clandestino», col quale si definisce «comunemente, ma in modo errato» il migrante irregolare.
Non abbiamo alternativa, poiché siamo di fatto l’hub d’Europa. Si innescherà un meccanismo che genera lavoro nel nostro Paese, ci saranno meno «disgraziati» in giro, e i cittadini avranno percezione di maggiore sicurezza. Salvando così gli equilibri della democrazia, a cui tutti teniamo tanto.
Il meccanismo che genera lavoro e in maniera diffusa si chiama SPRAR. Che ci saranno meno «disgraziati» in giro perché saranno in un carcere libico o perché ci illudiamo di poterli rimpatriare tutti non ci sembra una grande soluzione. Così come non ci sembra una grande soluzione quella di costruire grandi centri di accoglienza nelle periferie delle nostre città.
La sicurezza si costruisce attraverso l’inclusione sociale: solo così — e non con soluzioni tanto semplicistiche quanto ideologiche come quella di procedere a rimpatri di massa o di ridurre le tutele giuridiche per una sola categoria di persone — salveremo gli equilibri della nostra democrazia e di uno stato di diritto al quale teniamo altrettanto.