Per carità, a ciascuno piace quel che piace, e ci sono anche studi che dimostrano come ci si possa perdutamente invaghire di chi non ci tratta proprio bene, pure di quelli che ci fanno star male. Però, parlando di politica, le relazioni dovrebbero essere diverse, almeno così credo. Invece, pare che in alcuni partiti, inspiegabilmente, si sviluppi una sorta di “sindrome di Stoccolma”, che fa rimanere legati al proprio leader con più forza quelli che maggiormente da esso sono malmenati, quasi ci fosse una certa predisposizione al masochismo da parte delle minoranze interne, vilipese e derise eppure ferme nel loro intendimento di aiutare il capo. Mah, de gustibus…
Esagero? Non saprei. Prendiamo l’ultimo caso, i referendum, il loro esito e le reazioni arroganti della maggioranza del Pd. Il segretario del partito, poco dopo la chiusura dei seggi, ha colto l’occasione per confermare, in conferenza stampa, che quando perde la democrazia, lui vince e, comunque, sconfitti sono i presidenti di Regione che hanno condotto la battaglia, cioè quelli del suo partito, ai quali ha ricordato che «la demagogia non paga» (evidente, lui deve farla gratis, visto che l’ha già promessa per la campagna referendaria d’autunno).
I suoi bravi aiutanti di campo non han perso tempo nel correre a dileggiare i rivali, e con tanta inusitata violenza che alcuni si sono un po’ risentiti e hanno detto, a Renzi e soci, che «non si possono offendere i milioni di cittadini che hanno votato», credendo, e ragionevolmente sbagliando, a sentire le voci di governo, che lo strumento elettorale fosse un modo per far sentire la propria di voce, non per consacrare la forza del potente.
Poi, è tutto opinabile, ovvio, a partire dal fatto che i quindici milioni di ieri siano quattro gufi rosiconi, mentre gli undici delle Europee erano (tutti?) «gli italiani che chiedono le riforme». C’è però una cosa che non capisco: quousque tandem abutere patientia eorum? Dico, da qui a un mese e mezzo, si ricorderanno di quella che chiamano “offesa agli elettori”, o chiederanno agli stessi di votare per la gloria del segretario? E a ottobre, in quella che il capo del governo ha già annunciato come «la battaglia finale» (“finale”? Davvero? Capisco che ha detto che se perde va a casa, e quindi finisce, ma se vince, com’è da intendersi quel “finale”?), come voteranno?
Liberissimi di scegliere quel che vogliono, ma non di raccontarci ancora la storia che “un conto sono le elezioni amministrative o il referendum, altro è il partito e le politiche di governo”. Perché “un conto” diverso, in quel senso, erano pure le elezioni del maggio 2014, e sappiamo poi come le ha lette lui e i fedeli interpreti del suo volere in Parlamento.
Voglio, invece, raccontargliela io una storia, un aneddoto dell’immediato dopoguerra, quando le parole di democrazia e libertà ritornavano a scaldare i cuori dopo gli anni bui del fascismo. Una vicenda delle mie parti, dove ieri, di poco, il quorum si è superato. Bene, in un paesino lucano, un ricco signore, grande proprietario terriero e titolare di diversi laboratori, si candidò alle elezioni comunali, con la quasi certezza che, se quella lista avesse avuto la maggioranza, e prendendo lui tanti voti, sarebbe diventato sindaco. All’apparenza d’idee progressiste, egli aprì immediatamente un confronto con i suoi dipendenti, cercando di spiegare loro l’importanza di un sostegno al suo progetto di cambiamento.
A quei lavoratori, all’inizio un po’ scettici, quasi non parve vero di poter contare qualcosa nel decidere chi sarebbe stato il sindaco del paese. S’impegnarono a convincere tutti quelli che riuscivano dell’importanza di quella scelta, girarono casa per casa, andarono a cercare parenti e amici uno per uno, per spiegare e portarli sulle ragioni di quella battaglia. Fecero un grosso e grande lavoro e il loro padrone e candidato vinse. Fu una grande felicità per i suoi braccianti e i suoi operai; finalmente stavano dalla parte del vincente, loro, che non avevano mai vinto e mai avevano pensato di poterlo fare, erano dalla parte giusta, dalla parte del potere.
Erano così felici che il mattino, appresa la notizia, corsero sotto il portone del palazzo padronale per cantare la loro vittoria. «Abbiamo vinto», gridavano, «abbiamo il sindaco». Il padrone uscì al balcone, ma non sorrideva, anzi; guardava con aria torva quella folla festante sotto casa sua. «Che ci fate lì? », chiese con voce dura. «Siamo qua per festeggiare», risposero, «abbiamo vinto». «Avete vinto voi?», disse il signore. «E che cosa avreste vinto? Ho vinto io. E ora, di corsa, via da questa piazza e ritornate al lavoro, cafoni!».