Quousque tandem abutere

«Siamo qua per festeggiare», risposero, «abbiamo vinto». «Avete vinto voi? », disse il signore. «E che cosa avreste vinto? Ho vinto io. E ora, di corsa, via da questa piazza e ritornate al lavoro, cafoni!».

 

Per cari­tà, a cia­scu­no pia­ce quel che pia­ce, e ci sono anche stu­di che dimo­stra­no come ci si pos­sa per­du­ta­men­te inva­ghi­re di chi non ci trat­ta pro­prio bene, pure di quel­li che ci fan­no star male. Però, par­lan­do di poli­ti­ca, le rela­zio­ni dovreb­be­ro esse­re diver­se, alme­no così cre­do. Inve­ce, pare che in alcu­ni par­ti­ti, inspie­ga­bil­men­te, si svi­lup­pi una sor­ta di “sin­dro­me di Stoc­col­ma”, che fa rima­ne­re lega­ti al pro­prio lea­der con più for­za quel­li che mag­gior­men­te da esso sono mal­me­na­ti, qua­si ci fos­se una cer­ta pre­di­spo­si­zio­ne al maso­chi­smo da par­te del­le mino­ran­ze inter­ne, vili­pe­se e deri­se eppu­re fer­me nel loro inten­di­men­to di aiu­ta­re il capo. Mah, de gusti­bus

Esa­ge­ro? Non saprei. Pren­dia­mo l’ultimo caso, i refe­ren­dum, il loro esi­to e le rea­zio­ni arro­gan­ti del­la mag­gio­ran­za del Pd. Il segre­ta­rio del par­ti­to, poco dopo la chiu­su­ra dei seg­gi, ha col­to l’occasione per con­fer­ma­re, in con­fe­ren­za stam­pa, che quan­do per­de la demo­cra­zia, lui vin­ce e, comun­que, scon­fit­ti sono i pre­si­den­ti di Regio­ne che han­no con­dot­to la bat­ta­glia, cioè quel­li del suo par­ti­to, ai qua­li ha ricor­da­to che «la dema­go­gia non paga» (evi­den­te, lui deve far­la gra­tis, visto che l’ha già pro­mes­sa per la cam­pa­gna refe­ren­da­ria d’autunno).

I suoi bra­vi aiu­tan­ti di cam­po non han per­so tem­po nel cor­re­re a dileg­gia­re i riva­li, e con tan­ta inu­si­ta­ta vio­len­za che alcu­ni si sono un po’ risen­ti­ti e han­no det­to, a Ren­zi e soci, che «non si pos­so­no offen­de­re i milio­ni di cit­ta­di­ni che han­no vota­to», cre­den­do, e ragio­ne­vol­men­te sba­glian­do, a sen­ti­re le voci di gover­no, che lo stru­men­to elet­to­ra­le fos­se un modo per far sen­ti­re la pro­pria di voce, non per con­sa­cra­re la for­za del poten­te.

Poi, è tut­to opi­na­bi­le, ovvio, a par­ti­re dal fat­to che i quin­di­ci milio­ni di ieri sia­no quat­tro gufi rosi­co­ni, men­tre gli undi­ci del­le Euro­pee era­no (tut­ti?) «gli ita­lia­ni che chie­do­no le rifor­me». C’è però una cosa che non capi­sco: quou­sque tan­dem abu­te­re patien­tia eorum? Dico, da qui a un mese e mez­zo, si ricor­de­ran­no di quel­la che chia­ma­no “offe­sa agli elet­to­ri”, o chie­de­ran­no agli stes­si di vota­re per la glo­ria del segre­ta­rio? E a otto­bre, in quel­la che il capo del gover­no ha già annun­cia­to come «la bat­ta­glia fina­le» (“fina­le”? Dav­ve­ro? Capi­sco che ha det­to che se per­de va a casa, e quin­di fini­sce, ma se vin­ce, com’è da inten­der­si quel “fina­le”?), come voteranno?

Libe­ris­si­mi di sce­glie­re quel che voglio­no, ma non di rac­con­tar­ci anco­ra la sto­ria che “un con­to sono le ele­zio­ni ammi­ni­stra­ti­ve o il refe­ren­dum, altro è il par­ti­to e le poli­ti­che di gover­no”. Per­ché “un con­to” diver­so, in quel sen­so, era­no pure le ele­zio­ni del mag­gio 2014, e sap­pia­mo poi come le ha let­te lui e i fede­li inter­pre­ti del suo vole­re in Parlamento.

Voglio, inve­ce, rac­con­tar­glie­la io una sto­ria, un aned­do­to dell’immediato dopo­guer­ra, quan­do le paro­le di demo­cra­zia e liber­tà ritor­na­va­no a scal­da­re i cuo­ri dopo gli anni bui del fasci­smo. Una vicen­da del­le mie par­ti, dove ieri, di poco, il quo­rum si è supe­ra­to. Bene, in un pae­si­no luca­no, un ric­co signo­re, gran­de pro­prie­ta­rio ter­rie­ro e tito­la­re di diver­si labo­ra­to­ri, si can­di­dò alle ele­zio­ni comu­na­li, con la qua­si cer­tez­za che, se quel­la lista aves­se avu­to la mag­gio­ran­za, e pren­den­do lui tan­ti voti, sareb­be diven­ta­to sin­da­co. All’apparenza d’idee pro­gres­si­ste, egli aprì imme­dia­ta­men­te un con­fron­to con i suoi dipen­den­ti, cer­can­do di spie­ga­re loro l’importanza di un soste­gno al suo pro­get­to di cambiamento.

A quei lavo­ra­to­ri, all’inizio un po’ scet­ti­ci, qua­si non par­ve vero di poter con­ta­re qual­co­sa nel deci­de­re chi sareb­be sta­to il sin­da­co del pae­se. S’impegnarono a con­vin­ce­re tut­ti quel­li che riu­sci­va­no dell’importanza di quel­la scel­ta, gira­ro­no casa per casa, anda­ro­no a cer­ca­re paren­ti e ami­ci uno per uno, per spie­ga­re e por­tar­li sul­le ragio­ni di quel­la bat­ta­glia. Fece­ro un gros­so e gran­de lavo­ro e il loro padro­ne e can­di­da­to vin­se. Fu una gran­de feli­ci­tà per i suoi brac­cian­ti e i suoi ope­rai; final­men­te sta­va­no dal­la par­te del vin­cen­te, loro, che non ave­va­no mai vin­to e mai ave­va­no pen­sa­to di poter­lo fare, era­no dal­la par­te giu­sta, dal­la par­te del potere.

Era­no così feli­ci che il mat­ti­no, appre­sa la noti­zia, cor­se­ro sot­to il por­to­ne del palaz­zo padro­na­le per can­ta­re la loro vit­to­ria. «Abbia­mo vin­to», gri­da­va­no, «abbia­mo il sin­da­co». Il padro­ne uscì al bal­co­ne, ma non sor­ri­de­va, anzi; guar­da­va con aria tor­va quel­la fol­la festan­te sot­to casa sua. «Che ci fate lì? », chie­se con voce dura. «Sia­mo qua per festeg­gia­re», rispo­se­ro, «abbia­mo vin­to». «Ave­te vin­to voi?», dis­se il signo­re. «E che cosa avre­ste vin­to? Ho vin­to io. E ora, di cor­sa, via da que­sta piaz­za e ritor­na­te al lavo­ro, cafo­ni!».

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