di Chiara Bertogalli
L’allarme ONU, che risuona dal panel intergovernativo degli scienziati del clima, l’IPCC, non lascia spazio a dubbi. L’influenza delle attività antropiche sulle concentrazioni di gas serra sta portando l’equilibrio climatico al caos.
Corriamo a testa bassa verso eventi climatici estremi, sempre più frequenti ed imprevedibili. Alcuni effetti del riscaldamento globale sono ormai irreversibili: lo scioglimento delle calotte polari, l’innalzamento del livello degli oceani e l’acidificazione delle acque, il collasso delle correnti oceaniche. Tutto questo prelude ad altri eventi irreversibili, come l’emissione di metano e ulteriore CO2 dallo scioglimento del permafrost o il minore riassorbimento di anidride carbonica del suolo, di cui non si riescono ancora a stimare entità e conseguenze. Su case e città, su agricoltura e cibo, su lavoro e mobilità, su ciò che esisterà o si estinguerà.
Di fronte alle parole inequivocabili della scienza, i decisori politici ancora tentennano, non solo, negano: nelle scorse settimane abbiamo sentito dire a un ministro della repubblica italiana, parte del sedicente governo dei migliori, che occorre “difendere l’industria italiana dal pacchetto clima”.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vorrebbe disegnare una transizione soft, possibile – forse — trent’anni fa. Non vediamo adattamento o mitigazione degli effetti in tempi adeguati, solo mitigazione delle conseguenze economiche per i soliti noti che hanno proliferato indisturbati vendendo, se pur indirettamente, tonnellate di CO2.
Nel mondo alla rovescia, chi dovrebbe decidere per il bene comune non è in grado di ascoltare la scienza e resta ancora legato al modello di sviluppo degli anni ottanta del secolo scorso: prendere tutto quel che si può. L’ipoteca è incommensurabile: il futuro benessere delle prossime generazioni, la vivibilità del pianeta per noi e per le altre specie che lo popolano e dal cui equilibrio dipende anche – soprattutto — la nostra sopravvivenza.
È tempo di fare una scelta radicale verso la rigenerazione, che non contempli finzione nè procrastinazione, di investire tutto, realmente, in una transizione sistemica. Altrimenti tutto degenererà, a partire dalla sussistenza di chi già oggi è lasciato indietro, vittima della depredazione delle risorse di un’economia che sega il ramo su cui è seduta.
Non vedere il legame fra gli sconvolgimenti climatici e la politica appare del tutto inspiegabile a noi che, in questi anni, siamo scesi in piazza assieme ad altri milioni di persone, per chiedere un cambio di visione, per chiedere di proteggere il futuro. Appare, ora sì, una pretesa infantile pensare che l’emergenza climatica possa essere affrontata con risorse adeguate se la questione non verrà trascinata con grande determinazione nei luoghi della politica: anche gli altri partiti abbraccino subito la questione, si mettano a studiare, si esprimano con i programmi. I cittadini attuino il loro potere democratico in cabina elettorale e, prima ancora, nella società. Gli esperti smettano di arroccarsi nei tecnicismi e in tiepide neutralità: è il momento per loro di entrare in Parlamento, non di stare alla finestra.
Il motivo è semplice: il nostro dibattito pubblico dimostra ogni singolo giorno di non avere sufficienti strumenti per comprendere ed agire. Giornali e giornalisti rendono evidente ogni giorno di non saper trattare il tema, né di dedicare l’importanza necessaria a risvegliare l’attenzione nei cittadini e in coloro che amministrano tutti i livelli organizzativi della società.
Cambiare modello di sviluppo e cambiarlo subito. Far entrare il clima nei temi caldi della politica, e farlo subito. Pretendere di parlare di clima dentro al Parlamento, non accettando più di parlarne fuori, in migliaia di incontri, seminari, dibattiti che coinvolgono solo chi è già coinvolto.
Il clima entri in Parlamento, sui giornali, nei talk show, nelle urne elettorali. Non è tempo di additare la politica, ora è tempo di imporle di agire con determinazione.