Stavo cercando una chiave per spiegare, anche a me stesso, questa campagna elettorale, in cui i candidati si spendono per le proprie liste senza che possano essere direttamente votati — grazie, Rosatellum — e in cui non è stato possibile, anche per limiti nostri, certo, far particolarmente passare nessun messaggio costruttivo, serio, in un dibattito tutto schiacciato sulle sparate a sensazione e sul preciso intento di far leva sulle peggiori inclinazioni umane: l’odio, la diffidenza verso la diversità, l’indifferenza nei confronti di chi è più povero, la violenza verbale e materiale, la cecità verso i reali problemi che ci attanagliano, come cittadini e come società.
Ho trovato quella chiave oggi, per puro caso, in un articolo su un giornale di Biella, città dove sono nato e candidato, un articolo non di cronaca politica ma nera. Il titolo dice già molto: “Due nomadi arrestate dalla polizia durante un furto in casa”, poi nel pezzo si dice “Le due zingarelle stavano frugando nei cassetti degli armadi della camera da letto alla ricerca di soldi e oggetti in oro”, e ancora, con malcelata soddisfazione, “La più piccola è stata portata al “Ferrante Aporti” di Torino, il noto carcere minorile”. E infine: “Alla grande, incinta, con un pancione da ottavo mese di gravidanza da portarsi appresso, il giudice delle indagini preliminari che ha convalidato l’arresto, ha concesso i domiciliari nel campo nomadi di Torino Caselle, casa sua, dove vivono i suoi parenti. Ma dove non è stata per niente accolta bene. Anzi, è stata allontanata, letteralmente cacciata. “Domiciliari” significano controlli e nel campo, evidentemente, nessuno voleva poliziotti tra i piedi”.
Da dove cominciare? La specificazione etnica o semplicemente culturale dell’autore di un reato in un pezzo di cronaca è uno dei più antichi problemi del giornalismo, io che di cognome faccio Cosseddu so per averlo sentito dai miei genitori di quando i giornali scrivevano “arrestato un sardo”: non un ladro, o un truffatore, ma “un sardo”. Qualsiasi giornalista sa che è contro la deontologia professionale usare questo modo di raccontare un fatto (gli italiani dovrebbero saperlo dai tempi di Sacco e Vanzetti), ma non è mai fregato granché a nessuno, ora è il 2018 e a quanto pare di passi avanti non se ne sono fatti poi molti. Il cronista ha il dovere dell’imparzialità, in teoria, e non potrebbe quindi mostrare empatia nei confronti delle motivazioni, della vita di una ragazza incinta all’ottavo mese che viene sorpresa mentre compie un reato, ma qui non c’è pericolo che ve ne sia, empatia, in compenso l’imparzialità viene tranquillamente messa da parte per ipotizzare i motivi per cui sarebbe stata in seguito cacciata dal suo campo, sottolineando così per chi a quel punto non lo avesse capito che il sospetto non grava solo su di lei, ma su tutta la sua comunità.
Come dicevo, è solo un ultimo piccolo esempio di una letteratura sterminata, e antica: i razzisti ci sono sempre stati, ci sono ancora. La differenza in questo preciso momento, però, è questa: che ora sembrano far parte di un contesto, non più caso, eccezione o cosa da pensare ma non dire, ma normalità. Una legittimazione che parte dalla piccola provincia italiana, passa per le politiche di un ministro dell’Interno che promuove leggi razziali e finanzia lager in Libia, e che alla fine dà la forma a tutto il Paese. E improvvisamente scopriamo di esserci finiti dentro.
Ecco, con tutti i limiti di questa campagna, con tutta la comprensione per chi è scoraggiato e deluso, se c’è un motivo per andare a votare, domenica, e di votare per chi come noi lotta contro questa trasformazione, che ormai è uno stato delle cose, quel motivo è questo qui. E non me ne vengono in mente di più importanti.