Ad Ottobre il numero di lavoratori a tempo determinato ha raggiunto la quota record di 2,824 milioni: dall’inizio del 2017 le variazioni mensili sono soltanto positive, segno di continui provvisori apporti manodopera ad un sistema produttivo che cresce ma stenta ancora e non contente visibilità su investimenti e consolidamento della base occupazionale. La tendenza è la medesima da almeno un anno e non v’è segnale di una inversione. Da Ottobre 2016, gli occupati sono cresciuti dello 0,8% (+1.2% al netto della componente demografica) e, come al solito, la coorte d’età che cresce in misura maggiore è sempre quella fra 50 e 64 anni, +3.8% (+1.8% al netto della componente demografica).
Dei contratti a tutele crescenti oramai si è persa ogni traccia e poco potrà fare la nuova decontribuzione proposta in Legge di Bilancio 2018 da parte del Governo. La decontribuzione 2018 prevede lo sconto contributivo del 50% sino al limite di 3mila euro: siamo ben lontani dalle cifre messe in gioco nel 2015, quando il massimale annuo di esonero (ex comma 118 dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190) era pari a 8060 euro. Ragion per cui, da Gennaio non ci si devono attendere stravolgimenti allo stanco andamento che hanno preso le attivazioni contrattuali del “Tutele Crescenti”. Sarà per questo che il governo è stato indotto a presentare un emendamento alla Legge di Bilancio, correttivo del Jobs Act e volto a modificare il limite temporale del contratto a tempo determinato, spostandolo da 36 mesi a 24 mesi e riducendone i possibili rinnovi che, secondo la disciplina vigente, possono essere al massimo cinque. Illustrata dal consigliere economico di Palazzo Chigi Marco Leonardi, la toppa pare peggio del buco. Ma qualcuno effettua analisi sugli aspetti e gli impatti delle modifiche legislative?
Da un lato, infatti, la modifica della durata contrattuale ha lo svantaggio di avvicinare il tempo della disoccupazione, e dall’altro quello di ridurre i fattori sui quale determinare l’indennità di disoccupazione stessa. La NASpI infatti, dopo le modifiche del D. Lgs. 22/2015 (un altro decreto facente parte del corpus normativo del Jobs Act) si calcola sulla base dell’importo della retribuzione imponibile ai fini previdenziali in rapporto alle settimane di contribuzione. Tradotto: contratti più brevi, minor rinnovi, minor retribuzione imponibile e settimane contributive, maggiore rischio di insufficiente tutela dalla disoccupazione. Non è una buona soluzione.
Viceversa, se davvero l’intenzione è quella di disinnescare la crescita inesorabile del precariato, allora si dovrebbe pensare di togliere convenienza al contratto a tempo determinato, o addirittura ad eliminarlo come opzione praticabile.
La proposta di Possibile è quella di un Contratto Unico, composto di tre fasi — dalla fase di prova, a quella di allineamento professionale sino all’ultima, quella della stabilizzazione. Un Contratto Unico ove la stabilizzazione avviene entro i fatidici 36 mesi, per gradi, con valorizzazione professionale del lavoratore. E soprattutto dove tornano le tutele, sì, quelle dell’articolo 18.