Annunciata in pompa magna dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, la proposta di riforma del Regolamento di Dublino non è solamente insoddisfacente: è una vera e propria presa in giro. Ma andiamo con ordine.
Von der Leyen, durante il discorso sullo stato dell’Unione dei giorni scorsi, aveva annunciato una proposta di riforma che superasse quello che è unanimemente riconosciuto come il nodo centrale del Regolamento di Dublino, e cioè il cosiddetto “criterio del primo paese d’accesso”. Secondo quest’ultimo, il paese europeo al quale tocca esaminare le domande d’asilo è — appunto — il primo paese d’accesso, che negli ultimi anni ha voluto dire Italia, Grecia e Spagna. Quel che ci si aspettava era una proposta che, in primo luogo, valorizzasse i legami “importanti” (ad esempio con familiari già residenti in Ue) dei richiedenti asilo e, in secondo luogo, stabilisse un criterio per la condivisione della gestione delle richieste d’asilo. Personalmente, in questo esatto ordine: 1) legami importanti e 2) condivisione tra paesi.
La proposta della Commissione non contiene nulla di tutto ciò, come spiega Annalisa Camilli su Internazionale:
Il nuovo sistema prevede che uno stato dell’Unione europea possa chiedere l’intervento della Commissione per tre motivi: pressione migratoria o previsione di una pressione migratoria, crisi migratoria grave o sbarco di persone soccorse in mare. A quel punto la Commissione avrà l’obbligo di intervenire in sostegno del governo che ha chiesto aiuto. Ma i 27 paesi dell’Unione avranno la possibilità di scegliere come intervenire: potranno offrire accoglienza a un certo numero di richiedenti asilo arrivati nel paese di frontiera oppure potranno aderire a quello che è stato definito un programma di “return sponsorship” (sponsorizzazione dei rimpatri), finanziando cioè i rimpatri che saranno operati dal paese di frontiera.
Il nuovo sistema prevede inoltre che i paesi di frontiera adottino delle procedure rapide per l’esame della richiesta di asilo e che stabiliscano al massimo in cinque giorni chi ha diritto a chiedere asilo e chi invece debba essere rimpatriato. Questo implicherà l’adozione di liste di paesi terzi considerati sicuri (che al momento non sono omogenee in Europa) e che i migranti che provengono da determinati paesi non siano ammessi alla procedura di asilo, ma siano velocemente identificati come “rimpatriabili”. La procedura per la richiesta di asilo non potrà durare più di 12 settimane.
La proposta, in estrema sintesi, è un programma di rimpatri, che inevitabilmente si fonderà sull’adozione di liste di paesi (sicuri e non sicuri) sulla base delle quali i paesi europei decideranno se una persona ha diritto o meno all’asilo. Tutto ciò, in barba a qualsiasi trattato internazionale (e alla nostra Costituzione). Il diritto internazionale, in questo campo, è chiarissimo: il diritto d’asilo è un diritto soggettivo, fondato sulla condizione e la storia personale del richiedente, non su liste di paesi sicuri e paesi non sicuri.
Che tutto questo arrivi su proposta di un’istituzione dell’Unione europea — nata come luogo di tutela dei diritti, di pace e convivenza — non può che essere l’ennesima, amara delusione.