di Emanuele Busconi
Le università hanno chiuso prima di ogni altra attività. Chi le frequenta ricorda bene l’incertezza delle prime settimane, quando, di giorno in giorno, ci si chiedeva cosa sarebbe successo. Poi il lockdown ha travolto tutte e tutti e ogni ateneo si è riorganizzato al meglio, secondo le risorse e le capacità disponibili.
Essere studenti durante il lockdown è stato tutt’altro che facile, ma ciascuno di noi ha cercato responsabilmente di fare la propria parte, con la consapevolezza che la comunità universitaria e l’intero paese stessero attraversando un periodo drammatico e inaspettato.
Tuttavia, la nostra responsabilità e il nostro tentativo di adattarci non devono essere interpretati come silenzio e disponibilità a tutto. Quando tutte le altre attività sono ripartite, le università sono rimaste chiuse. Quasi nessuno, da febbraio ad oggi, si è rivolto a noi dandoci informazioni chiare e prospettive sul futuro. Tutto questo è inaccettabile.
Ancora più inaccettabili sono le speculazioni su di noi, quelle che subiamo ogni volta che il problema del crollo degli affitti o delle consumazioni nei locali delle zone universitarie, viene prima dell’interrogativo su come garantire il diritto allo studio.
Questo interrogativo, al momento, sembra che se lo siano posto solo quei docenti che, insieme al personale degli atenei, spesso lavorando più del dovuto, hanno fatto di tutto per permetterci di non interrompere il nostro percorso di studi e garantire la continuazione di lezioni e attività universitarie. È grazie a queste persone che le università hanno resistito, seppur con grandi sacrifici, nei mesi più difficili, ma non si può pensare che questa organizzazione, ormai insostenibile, diventi la normalità.
Ci aspettiamo molto di più. Ci aspettiamo che si comprenda che non siamo spettatori di corsi da erogare online, come se la didattica a distanza fosse perfettamente sostituibile a quella in presenza. Non siamo l’insieme dei nostri esami e meno ancora la somma dei crediti formativi. La vita degli atenei è molto di più di tutto questo e occorre trovare soluzioni per far sì che essa possa riprendere in sicurezza. Occorre impegnarsi perché in gioco c’è la nostra formazione che non si esaurisce con le ore di lezione, ma è anche aggregazione, partecipazione alla vita della collettività, opportunità di organizzarsi e confrontarsi, anche criticamente.
Ora che si inizia a parlare di aperture delle università al 50% ci chiediamo: chi stila le linee guida ha idea di cosa parli? Moltissimi studenti sono fuorisede, molti altri sono lavoratori: quest’incertezza crea solo problemi e rischia di far aumentare il numero di chi abbandona gli studi.
Occorre essere chiari affinché le università siano accessibili a tutte e tutti. Per fare un esempio concreto: devono essere accessibili non solo a chi vi abita vicino e può permettersi di recersi in aula in pochi minuti, ma anche a chi, in questi giorni, si chiede se affittare un alloggio o una stanza e sostenerne le spese o no.
Altrettanto accessibile deve essere lo studio. Non tutti hanno a disposizione spazi adeguati allo studio, per questo non è sufficiente garantire appelli d’esame, se non si garantiscono le condizioni per preparare gli esami: qualcuno ci parla di biblioteche (e delle care spese per i testi universitari), di aule studio accoglienti e sicure, di residenze universitarie?
Per farla breve: qualcuno ci parli di diritto allo studio, prima di annunciare numeri e percentuali del tutto insufficienti sulla riapertura delle aule.
Finché si eluderà questo interrogativo si lascerà spazio alla crescita delle diseguaglianze, proprio all’interno di quelle istituzioni che dovrebbero essere in prima linea nel cancellarle e non è ciò di cui abbiamo bisogno.