Siamo diventati il paese delle disuguaglianze, non solo disuguaglianze sui diritti ma anche sui redditi. Dobbiamo ripartire dal concetto di uguaglianza e quindi rivedere completamente il sistema economico. Raccontano che spendiamo troppo in welfare, in realtà spendiamo quanto uno dei paesi più virtuosi per del mondo per quanto riguarda la protezione sociale dei cittadini, la Finlandia; ossia un quarto di Pil. Ma allora cosa c’è di sbagliato nel nostro sistema? Noi spendiamo il 14% di Pil in pensioni, loro il 9%; noi spendiamo l’1,40% per le politiche famigliari, loro oltre il 2%; noi spendiamo lo 0,9% per le politiche attive sul mercato del lavoro mentre loro spendono più del 2%. Quindi le risorse per finanziare il welfare universalistico ci sono ma vengono spese male, negando servizi di aiuto alle famiglie e ai lavoratori più giovani.
Ci sono altre due questioni che hanno prodotto delle disuguaglianze tra generazioni: un sistema retributivo sballato e la concessione in passato di pensionamenti a persone troppo giovani. Con il sistema retributivo il calcolo pensionistico veniva fatto in base all’ultimo stipendio e quindi l’importo della pensione non era proporzionato ai contributi versati. La trasformazione demografica del nostro paese, con la crescita esponenziale del numero dei pensionati rispetto ai lavoratori ha mandato in crash il sistema.
Sulla base dei dati analizzati da Emanuele Ferragina, in Italia ci sono 18,6 milioni di pensionati: circa 11,6 milioni ricevono una pensione sotto i 1000 euro (in media 533 euro), circa 5 milioni ricevono una pensione tra i 1000 e i 2000 euro, circa 2 milioni ricevono una pensione sopra ai due mila euro (in media 2909 euro); si tenga presente che sulla base della regola retributiva questi ultimi ricevono una pensione per cui in media hanno contribuito solo per metà. I soldi ottenuti dalla tassazione aggiuntiva delle pensioni più alte e da una maggiore tassazione sul patrimonio andrebbero tutti investiti sul reddito minimo garantito e sul sussidio universale di disoccupazione.
Il reddito minimo è la garanzia di un livello base al di sotto del quale nessun individuo possa scendere. Garantire un reddito minimo di 400 euro a persona costerebbe 7,1 miliardi di euro (lo 0,5% di Pil) e supporterebbe circa l’8% delle famiglie italiane. Ovviamente si potrebbe pensare ad alzare questa asticella nel tempo a 600–700 euro, ove le finanze pubbliche lo consentissero. Le famiglie supportate dallo Stato salirebbero dall’attuale 27% al 91%.
Serve anche un sussidio universale di disoccupazione, accompagnato da politiche attive sul mercato del lavoro. Il successo di queste politiche nel Nord Europa dimostra che il welfare è anche una leva imprescindibile per lo sviluppo economico. Il sussidio dovrà essere limitato nel tempo e offerto solo a chi si impegna realmente per cercare lavoro. Secondo Tito Boeri, nel 2008 il sussidio con queste caratteristiche sarebbe costato 9 miliardi di euro mentre nello stesso anno si spendevano 240 miliardi di euro per le pensioni di cui un terzo solo per le pensioni sopra i 2000 euro.
Nel frattempo sarebbe auspicabile un ritorno alla sola cassa integrazione ordinaria, ridimensionando gradualmente quella straordinaria, e il superamento dell’istituto della mobilità per andare verso una maggiore responsabilizzazione dell’impresa. Inoltre anche l’Aspi si muove per l’introduzione della tassa sul licenziamento per quei contratti che non prevedono il versamento di contributi, in modo da consentire ai perdenti posto di usufruire di un’indennità di disoccupazione.
In Danimarca, dove la protezione sociale del lavoratore è molto elevata, è più facile licenziare un lavoratore a tempo indeterminato rispetto all’Inghilterra, dove la protezione sociale è molto più bassa: la protezione non si basa sul rendere rigide e impercorribili le vie che portano al licenziamento ma sul prendere per mano il lavoratore, che per varie ragioni si trova disoccupato. L’obiettivo è quello di far rientrare il lavoratore nel mercato del lavoro con una posizione più forte rispetto a quella precedente e nel mentre sostenerlo con un reddito sostanziale per l’intera durata del periodo di disoccupazione.
La strada quindi è questa: non occorre aumentare la spesa per avere un welfare che riduca le disuguaglianze e renda il nostro sistema produttivo più efficiente, ma sarebbe opportuno ribilanciarla partendo dalla correzione delle storture.