È sempre difficile esprimere un giudizio politicamente neutro su riforme tecniche, come quella detta “Cartabia” della giustizia penale, dal nome della ministra proponente, perché è evidente come sotto l’aspetto tecnico ci sia sempre un indirizzo di carattere politico.
Tuttavia, in questo caso, visto che sulla riforma pare sia stato trovato un accordo e che verrà approvata con voto di fiducia sull’attuale affollatissimo governo, il compito diventa più semplice.
In questo caso pare di capire che l’indirizzo politico sia tutto nella norma che prevede l’improcedibilità dell’azione penale nel caso vengano superati determinati limiti temporali nel processo di appello o nel giudizio di cassazione. Le altre modifiche, ancor più tecniche ma residuali, non raggiungono le prime pagine dei giornali, anche perché paiono di buon senso.
Così, dopo le polemiche sulla riforma Bonafede che riguardava la prescrizione, con l’intento di eliminarla dopo il primo grado di giudizio, dando così corso a processi potenzialmente infiniti, ci si trova nell’estremo opposto, cioè eliminare fisicamente tutto il processo se la fase d’appello dura più di due anni o quella in cassazione più di uno (con eccezioni, proroghe e vari distinguo). In pratica si andrebbe a buttare il bambino con l’acqua sporca, facendo salva, bontà loro, l’azione civile (come se nel civile i processi durassero poco, sì, ciao).
Ora, prescindendo dai giudizi dei pubblici ministeri di fatto prestati alla politica, appare evidente come si sia passati dall’estremo ipergiustizialista del governo Conte Bis, che, ricordo, non comprendeva solo il M5S ma anche il PD, Italia Viva e gli eletti con LeU, a quello ipergarantista del governo attuale, che non a caso comprende anche Forza Italia e la Lega.
Solo che la giustizia non è tutto questo: la giustizia non a caso è rappresentata da una bilancia, perché ci sono diritti che vanno bilanciati con altri diritti, per consentire la miglior convivenza civile possibile. Io non vedo alcun bilanciamento in nessuna delle due riforme.
E invece questo bilanciamento, questa equità, questo “modus in rebus” dovrebbe essere la priorità di qualsiasi legislatore, a maggior ragione del legislatore-governo, che impone le norme con la fiducia.
Così come era assurdo che un processo durasse all’infinito per le lungaggini della magistratura, e non certo degli avvocati, se non in qualche processo molto mediatico a persone molto ricche (ricordo che nell’80% dei casi il reato si prescrive prima del rinvio a giudizio, quando l’avvocato magari non sa neppure che siano in corso le indagini), con necessità quindi di una norma di civiltà come quella della prescrizione, è altrettanto assurdo che un processo di primo grado, o addirittura d’appello, venga buttato via per il semplice decorso del tempo, cioè per fatti che possono anche essere completamente estranei al processo stesso.
Personalmente, nonostante la proponente sia stata Presidente della Consulta e non un ex dee jay che non aveva chiara la differenza fra dolo e colpa, ho qualche dubbio sulla costituzionalità della norma.
L’art. 111 della Costituzione prevede, infatti, che la legge debba assicurare la “ragionevole durata del processo”. E dubito fortemente che la “ragionevole durata” possa esprimersi con un semplice conto alla rovescia in appello o in cassazione, proprio perché in questo modo andrebbero a perdersi tutte le altre tutele dell’art. 111, e il processo non sarebbe più “giusto”.
Certo, diverso sarebbe stato prevedere l’improcedibilità non dell’azione penale ma dell’appello o del giudizio in cassazione, con conseguente passaggio in giudicato, quindi definitività, della sentenza impugnata, di primo o secondo grado (come accade nel civile quando un giudizio è improcedibile).
Questo avrebbe significato avere le sentenze e non i sostanziali annullamenti, che sono lo scopo politico indiretto, però erano sentenze che magari non piacevano.
Il giudizio è ugualmente negativo sui sei referendum proposti dai Radicali, cavalcati e sostenuti da Lega e Italia Viva, che ne stanno facendo campagna elettorale permanente.
Il n. 1 e il n. 3 — vincolo delle firme per le candidature al CSM e valutazione professionale dei magistrati — oltre che sostanzialmente irrilevanti, sono a mio avviso un’ingerenza inutile nell’autogoverno della Magistratura.
Il n. 2, quello che prevede la responsabilità personale del magistrato, sta fra la vendetta e l’intimidazione permanente, posto che chi subisce un danno per “colpa” di giudici ha già tutto il diritto di essere risarcito, ma dallo Stato, mentre chi lavora bene e in buona fede (la maggior parte dei magistrati) non può farlo sotto la spada di Damocle di processi e risarcimenti diretti, perché anche solo un’azione civile è un problema, per quanto infondata, e per far funzionare il sistema non abbiamo bisogno certamente di cause intimidatorie.
Sul n. 4, che di fatto prevede una nuova norma positiva, cioè la separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e inquirenti, quindi giudici e pubblici ministeri, ho forti dubbi di ammissibilità, perché è fatto col copia incolla. Ricordo che la Consulta ha giudicato inammissibile il quesito sull’abrogazione del Jobs Act nella parte in cui aboliva l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, per il quale la CGIL aveva raccolto più di tre milioni di firme, però formulando il quesito in modo che non ci si limitasse all’abrogazione della norma, ma che venisse estesa la tutela anche ai dipendenti di imprese sotto i 15 dipendenti. In ogni caso, è un argomento, proprio perché di carattere non semplicemente “abrogativo” che dovrebbe essere discusso in parlamento.
Anche le limitazioni alla carcerazione preventiva, che incidono solo sul requisito della reiterazione del reato, sono argomento tecnico irricevibile in via referendaria, con norme, nel caso (ma non a parere mio) da modificare in parlamento.
Dulcis in fundo, l’abrogazione integrale al n. 6 del decreto Severino, che pur con qualche limite e qualche eccesso di rigore, nasce soprattutto da vincoli europei contro la corruzione.
La conclusione è che, se qualcosa è davvero improcedibile, inammissibile o come meglio, per usare una formula tipica del processo civile, è l’approccio politico alla questione giustizia, che in realtà è molto semplice. Come si fa ad entrare in un ristorante con 200 coperti tutti occupati in cui lavorano un solo cuoco e un solo cameriere e sperare di essere serviti presto e di mangiare bene?
L’unica soluzione possibile è ampliare gli organici, di giudici e cancellieri, senza toppe messe male come gli assistenti mal pagati dell’Ufficio del Giudice oppure il ricorso sistematico a magistrati precari, che hanno funzioni e doveri uguali ai togati, eccetto che per compensi e diritti.
Tutto il resto è sempre e comunque rumore da campagna elettorale permanente, seguendo la pancia del proprio elettorato, anche con il beneplacito dei “migliori”, oppure resa incondizionata pur di stare attaccati alla poltrona, perché al governo, ricordo, ci sono praticamente tutti.