Partiamo da una premessa: essere eletto membro del Parlamento, deputato o senatore, è un privilegio e un impegno solenne nei confronti dei propri elettori e di tutti i cittadini del Paese che si rappresenta. Va riconosciuto, ed è essenziale farlo, come moltissimi degli eletti svolgano il proprio compito con scrupolo e responsabilità. Il problema però è che il nostro attuale sistema normativo non ci mette al riparo dagli abusi di quella parte minore di “avventurieri” che utilizza in modo distorto e personalistico la carica affidatagli e le risorse, in essa comprese, a loro disposizione.
E’ populistico sicuramente scagliarsi contro le indennità ricevute dai parlamentari, molti dirigenti pubblici guadagnano decisamente di più, con molte meno responsabilità ed esposizione. Fare politica, farla bene, ha dei costi, se n’è accorto anche chi ha lanciato una crociata aprioristica verso tale aspetto, perdendo poi, con lo svolgersi della legislatura, quel “saio monacale” che brandiva e che ha iniziato, quindi, a stargli (molto) stretto. La voce che, però, si presta a strumentalizzazioni ed abusi, spesso lesivi dei diritti altrui, è rappresentata da quei 3690€ al mese per i deputati e 4.180 per i senatori, identificati come “rimborsi parlamentari per la propria attività politica, comprensivi delle spese per i collaboratori”.
Fino alla scorsa legislatura tale somma era completamente “libera”, ovvero veniva elargita senza necessità di giustificativi. Dal 2013, solo metà di tale somma deve essere rendicontata, il resto rimane a forfait. Nella parte “vincolata” di tale somma, come detto, spesso il parlamentare fa rientrare i costi dei propri collaboratori parlamentari ma senza dover far riferimento ad un contratto definito e potendo così condizionare a proprio capriccio compensi, attività e, quindi, vite di tali professionisti, lasciandoli barcamenare fra “nero”, partite Iva, stage non pagati, contratti di collaborazione, per i quali, ai fini fiscali, non devono dichiararsi nemmeno sostituti d’imposta.
Nell’inchiesta de “L’Espresso” dello scorso 24 dicembre, “L’onorevole paga il portaborse in nero”, troviamo alcuni deprecabili esempi delle conseguenze di tale vuoto normativo, come quello di Domenico Scilipoti, di recente citato a giudizio dal suo ex collaboratore poiché dopo due mesi in nero, anziché contrattualizzarlo come promesso, lo avrebbe mandato via senza nemmeno dargli la somma pattuita. Cause simili hanno interessato moltissimi parlamentari rimasti nell’ombra, tra quelli emersi, L’Espresso ricorda i casi di Paolo Bernini, del “moralizzatore” Francesco Barbato e di Gabriella Carlucci.
Il paradosso dell’utilizzo, perlomeno “incongruo”, di tali rimborsi lo abbiamo però raggiunto, grazie al deputato Massimo De Rosa che, portato in causa dal suo collaboratore per aver deciso arbitrariamente e contrariamente a quanto prescritto da legge, la risoluzione del suo contratto “a causa del Jobs Act”, invece regolare in quanto stipulato ad inizio legislatura e, quindi, precedentemente all’entrata in vigore di tale riforma, ha ammesso candidamente che, arrivati a una conciliazione, ha pagato tale importo proprio col rimborso spese per l’esercizio del mandato, ovvero sono stati i cittadini italiani a pagare per le sue colpe.
Un aberrazione che segnala l’estrema urgenza di regolamentare quanto prima la completa rendicontazione di tali rimborsi ma soprattutto la normativa riguardante i collaboratori parlamentari, adeguandola, finalmente, a quanto previsto per il Parlamento europeo il quale contrattualizza direttamente tali lavoratori, ovviamente indicati dai rispettivi eurodeputati.
Vogliamo costruire un paese civile e moderno dove non debba essere la “fortuna” a condizionare le nostre vite, dove non ci sia più spazio per i furbi, tantomeno per la banalità del male, vogliamo norme certe e trasparenti, in ogni campo, per primo, a maggior ragione, in quelle istituzioni che hanno l’obbligo imperativo di essere d’esempio per l’Italia intera.
Comitato “I Poeti Sociali” di Roma