Una legge approvata in poco più di un mese, smentendo qualsiasi luogo comune sulla lentezza dell’iter legislativo italiano. Con il corollario di un governo che ha posto 8 volte la questione di fiducia, tra Camera e Senato, compiendo una forzatura con pochi — infelici — precedenti (legge Acerbo che portò dritti al fascismo, legge Scelba ribattezzata non a caso legge truffa e l’Italicum, approvato e cancellato in pochi mesi). Il tutto in nome della garanzia di dare “finalmente una legge elettorale all’Italia”. In questo clima il Rosatellum fu acclamato come il “riscatto di una legislatura fallimentare” dall’allora capogruppo di Forza Italia, Renato Brunetta. Il firmatario del testo, Ettore Rosato, ovviamente si dichiarò soddisfatto con gongolante “rivendicazione” del suo lavoro, così come la Lega con Cristian Invernizzi, che durante la discussione alla Camera rinfacciò al Movimento 5 Stelle — come cambiano i tempi — di opportunismo: “Finché vi andava bene una legge, come a giugno, anche voi votavate col Pd”. Proprio quel Partito democratico che si è affannato a battere le mani a una “buona legge elettorale”, secondo la definizione del renziano Andrea Romano. E chi sosteneva il contrario era il solito disfattista.
Sembra la storia di un fatto politico lontano nel tempo, avvenuto almeno una decina di anni fa. Invece tutto questo è datato ottobre 2017, con la bollinatura del Quirinale. Sono passati appena 6 mesi da allora. Ma adesso, come per incanto, il Rosatellum è “pessimo”, una legge elettorale da cambiare perché — oh signora mia — non possiamo mica andare a votare con una schifezza del genere? Perciò editorialisti preoccupati afferrano la penna rossa per sottolineare i problemi della legge elettorale, che non funziona, per una serie di ragioni. Quindi serve qualcosa di nuovo, almeno una modifica, un ritocchino, un lifting. Addirittura esponenti di Forza Italia e Lega hanno avuto una folgorazione: si sono resi conto che non va, il meccanismo è incontrollabile. “Le elezioni anticipate di certo non siamo noi a volerle e poi con questa legge elettorale si ripresenteranno ovviamente con lo stesso scenario”, sostiene ora, visionario, il presidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia. Mentre il collega governatore della Liguria, il forzista Giovanni Toti, gli fa eco chiedendo, a ogni spron battuto, di mettere mano “alla legge elettorale”. Ma uno dei ripensamenti più affascinanti è quello di Carlo Calenda, che da ministro dello Sviluppo ha avallato la fiducia al Rosatellum, salvo poi — da neoiscritto al Pd e ministro di un governo dimissionario — invocare ora una “commissione bilaterale per rimettere mano alla legge elettorale”. Quella che ha blindato insieme ai compagni di viaggio dell’esecutivo Gentiloni.
Così, gli stessi autori di un siffatto capolavoro, si candidano a ricominciare daccapo, a riprendere la tela per fare un Penelopum, un sistema da fare e disfare, con qualche piccola correzione tipo l’innesto di un premio di maggioranza su una legge che ha già una quota di maggioritario (sì, okay un tecnicismo, ma è una cosa impensabile e comunque importante) creando un’ennesima brodaglia nauseante. Il mix del peggio. Ed è tutto dire in un Paese che in 25 anni ha cambiato 4 leggi elettorali, di cui una — record dei record — non è mai stata applicata (leggi alla voce Italicum). Perché ci si affanna a trovare la soluzione “più comoda”, senza mai valutare l’opzione per far sentire l’elettore rappresentato al meglio.