Neanche il tempo di avere conferma che il MiBACT non stava scherzando quando ha detto di essere alla ricerca di 29 volontari del Servizio Civile in occasione del Giubileo straordinario, che anche il Comune di Torino decide di metterci del suo nello svilire i lavoratori della cultura, confermando come la pratica sia diffusa, oramai, a tutti i livelli di governo.
Andiamo con ordine: il 29 dicembre viene pubblicato un bando in cui è scritto che i volontari, tra le altre cose, collaboreranno alla “raccolta della documentazione e delle informazioni sui beni”, “reperimento di fotografie attuali e storiche” e alla “creazione delle schede scientifiche”. Basta leggerlo per rendersi conto che siamo di fronte all’ennesima istituzionalizzazione di una pratica che chi opera nel campo dei Beni Culturali ha spesso modo di incrociare: l’affido di mansioni che richiedono formazione e competenze specifiche a volontari o a personale non adeguatamente qualificato (e retribuito, di conseguenza). Per usare una metafora cara a molti, spesso e volentieri affidiamo “il nostro petrolio”, il patrimonio storico, culturale, artistico, a dei non professionisti stagionali. Non lo fareste con una piattaforma di estrazione, immagino. Ma lo facciamo, lo facciamo da un po’, con il metaforico petrolio culturale.
Andando ancora con più ordine, il 22 agosto 2014 vede la luce la legge 110/2014, per gli amici “Legge Madia”. La legge arriva dopo un anno di clima pesantissimo sull’argomento. Il tappo era saltato nella primavera precedente, in occasione della “Notte dei Musei”. Il MiBACT scrive un post su Facebook chiedendo l’appoggio delle associazioni di volontari per poter realizzare l’evento, poi lo rimuove. L’allora sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni interviene dichiarando che per pagare gli organici necessari al funzionamento delle strutture culturali non ci sono i fondi, anzi, sono in diminuzione da tredici anni e che quindi, a meno di “una vera e sostanziale inversione di tendenza” di dare “una prospettiva di lavoro alle persone che hanno investito in una formazione culturale” non se ne parla. Quindi, se ne deduce che chi è formato per il ruolo emigra o cambia lavoro, e a sostenere quello che dovrebbe essere uno dei settori di punta del Paese ci mettiamo in dosi sempre più frequenti i volontari. Non è solo demoralizzante, è anche una profonda ingiustizia nei confronti tanto di coloro che in qualsiasi contesto ragionevole verrebbero considerati professionisti da impiegare e tutelare, tanto delle numerose e serissime associazioni di volontari che da tempo e con ottimi risultati integrano e contribuiscono al funzionamento di strutture ed eventi culturali. Persone che non meritano di vedersi attribuito il ruolo di coloro che ricoprono gratis mansioni che non gli competono, togliendo spazi, dignità e reddito a chi è qualificato per il posto. La legge 110/2014 dovrebbe rispondere a questa situazione e alle richieste delle associazioni di professionisti, archeologi e restauratori in testa. Nel testo si legge infatti: “gli interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonché quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi, di cui ai titoli I e II della parte seconda del presente codice, sono affidati alla responsabilità e all’attuazione, secondo le rispettive competenze, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale”. Ecco quindi che “sono istituiti presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo elenchi nazionali di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, in possesso dei requisiti individuati ai sensi del comma 2”. I punti dolenti sono però (almeno) due. Primo, la definizione dei requisiti: “Il Ministero stabilisce, con proprio decreto, le modalità e i requisiti per l’iscrizione dei professionisti negli elenchi nazionali”, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Invece non è ancora successo, ben oltre i sei mesi previsti.
Inoltre, si legge che “l’assenza dei professionisti di cui al comma 1 dai medesimi elenchi non preclude in alcun modo la possibilità di esercitare la professione”, cosa che indebolirebbe alquanto la prima, volitiva parte di riconoscimento dei requisiti necessari per essere considerati dei professionisti.
Ed eccoci tornare al presente, con il bando del 29 dicembre che non è stato ritirato, nonostante le proteste e gli appelli delle Associazioni. Anzi, a un bando non ritirato segue un bando pubblicato, come i gol nel calcio. Questa volta a Torino, in evidenza sul sito di Turismo Torino. La città, a quanto pare, “ha bisogno di te e del tuo entusiasmo”: ma anche, si scopre continuando la lettura, che tu abbia tra i 18 e i 45 anni, che parli fluentemente “almeno una lingua straniera” e che tu stipuli l’accordo di volontariato per due anni con il Comune di Torino.
Non possiamo credere che sia questa la risposta da dare alla cittadinanza che vuole vivere la propria città e a un turismo in crescita, un turismo esigente, che cerca e merita un’offerta culturale all’altezza e non solo sulla carta. Un turismo spesso proveniente dall’estero, che già ha dovuto confrontarsi, per arrivare fin qui, con la comunicazione ufficiale del MiBACT e con i siti internet istituzionali (e questa è un’altra storia che meriterebbe di essere raccontata…). Non possiamo credere che il volontariato, da attività di crescita, altruismo e civismo, diventi il tappeto sotto cui nascondere la carenza o la inefficacia degli investimenti pubblici. Né che si voglia continuare a sminuire nei fatti il valore della formazione e delle competenze di coloro che hanno titolo e qualifica per lavorare, davvero, in un campo, quello culturale, che a parole non è mai abbastanza esaltato, sotto i riflettori delle inaugurazioni e dei grandi eventi.
Ma anche quando sono previsti dei rimborsi spese, perché non si tratta di volontariato, ma di tirocinio, il MiBACT riserva agli operatori culturali coinvolti percorsi in salita. L’ultimo caso è quello del tristemente noto progetto dei “500 giovani per la cultura”, che inizia un po’ oscuramente dal punto di vista dell’inquadramento normativo come proposta di “percorsi formativi” (definizione per altro in contrasto con i requisiti di formazione elevati specificati dal bando). L’allora ministro Massimo Bray risponde onestamente e puntualmente alle prime critiche specificando che sì, si tratta di tirocini. Le proteste non si quietano, organizzate con lo slogan “500 no al MiBACT”, anche se il bando viene in parte modificato. Ma non abbastanza. Il testo passa poi sotto la competenza del ministro Dario Franceschini e il MiBACT cambia definizione: non tirocini, ma piuttosto “un programma formativo straordinario che non è equiparabile ad alcuna forma di lavoro dipendente e per il quale non è previsto un contratto bensì la sottoscrizione di un progetto”, come da circolare. Insomma, una parafrasi che allarma chi è attento all’uso e all’abuso del lavoro di stagisti e tirocinanti, specie se non li si chiama con il loro nome, a cui sono legate delle tutele. Il programma però va avanti, e arriviamo a gennaio 2016, con la pubblicazione di una circolare del MiBACT che comunica che le modalità di pagamento delle indennità relative al progetto “500 giovani per la cultura” sono cambiate, nel bel mezzo del progetto, e quindi a gennaio i pagamenti non sono stati accreditati. Alle richieste scritte e telefoniche degli “interessati”, come li chiama la circolare, che aspettano la loro retribuzione, o almeno di sapere quando i pagamenti riprenderanno, la risposta è che non si sa. Era già successo con altri bandi, altri giovani, altri “programmi straordinari”: l’arbitrarietà dei calendari di pagamento rende difficile restare dentro a un progetto, anche quando è, come in questo caso, legato a una minima retribuzione (specie perché di solito il margine è molto stretto).
Insomma, per tornare alla metafora iniziale, sembra che si possa andare molto fieri del “nostro petrolio”, un po’ meno di come trattiamo coloro che se ne occupano. I professionisti del settore culturale non hanno bisogno di formazione o, se ne hanno, hanno diritto a riceverla nei tempi e nei modi previsti da normative che vanno aggiornate e attuate. Chi invece è già formato, deve vedere il proprio ruolo riconosciuto e giustamente retribuito, non sminuito nei rivoli di mille progetti pagati male o nulla, nell’accavallarsi di circolari e modifiche in corsa e ritardi che generano frustrazione e costringono molti ad abbandonare il campo o addirittura il Paese. Non si può continuare a offrire formazione a chi si è formato da una vita per non sobbarcarsi l’onere di curare un settore investendo sui professionisti: giovani e giovanissimi, ma anche accademici e professionisti con più esperienza meritano molto di meglio.
Offrire 500 posti sottopagati e senza prospettive, denota una mancanza di progettazione e prospettiva per il futuro, è un tirare a campare perché in un panorama desolante ci sarà sempre qualcuno che sceglie di accontentarsi. Allo stesso tempo però si è ottenuto l’effetto contrario, quello di alimentare la frustrazione di categorie fin troppo colpite e che han ritenuto la misura colma.
Alla metafora del petrolio, specie di questi tempi, noi preferiamo questa di Claudio Abbado:
“La cultura è un bene comune primario come l’acqua. I teatri, le biblioteche, i cinema sono come tanti acquedotti”.
E come per gli acquedotti, perché l’acqua possa scorrere e arrivare a tutti, bisogna aprire i rubinetti degli investimenti, non bastano una narrazione trionfale e promesse altisonanti e vuote.