L’ampia revisione della Costituzione su cui saremo chiamati a votare il 4 dicembre è – lo dicono ormai tutti – scritta in modo spesso oscuro o ambiguo. Questo consente talvolta ai suoi sostenitori di esporla con toni cangianti a seconda della luce del momento e degli interlocutori.
Negli ultimi giorni l’operazione è in corso nientemeno che rispetto alla composizione del Senato, l’ombelico di tutta la riforma costituzionale. Questa, infatti, parte dall’annuncio di “senatori non eletti e non pagati” e viene presentata, infatti, dal segretario del Pd, padre della riforma, alla direzione del suo partito (6 febbraio 2014) come la riforma dei quattro paletti, che sono: 1. non elettività dei senatori; 2. assenza di indennità per i senatori; 3. eliminazione del potere del Senato di dare e togliere la fiducia al governo; 4. eliminazione del potere del Senato di votare il bilancio.
Il paletto che ci interessa è quindi il primo, tradotto puntualmente nell’articolo 2 della riforma che modifica l’articolo 57 della Costituzione il cui testo è – nel caso – chiarissimo: «i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori».
Ora, nella seconda lettura effettuata dal Senato, è stato approvato un emendamento integrativo, in base al quale i Consigli regionali devono procedere all’elezione dei senatori «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma».
La norma ha avuto un’insperata fortuna, essendo riuscita a convincere la perplessa «minoranza del Pd» a passare da una posizione critica a un voto favorevole alla riforma. Tuttavia, le doti taumaturgiche dell’emendamento sono state decisamente sopravvalutate al punto di far concludere a qualcuno che era stata reintrodotta l’elezione diretta dei senatori.
Naturalmente ciò è escluso dall’appena riportato secondo comma dell’art. 57, il quale prevede – con chiarezza, in questo caso – che «i Consigli regionali e i Consigli delle autonomie locali eleggono […] i senatori». D’altronde, perché tale elezione avvenga «in conformità delle scelte espresse dagli elettori» basta che sia rispettata la proporzione rispetto ai voti e ai seggi ottenuti dalle diverse liste, per cui non verrebbe aggiunto nulla rispetto a quanto già previsto allo stesso art. 57, secondo e settimo comma. Alcuni vorrebbero che la previsione fosse riempita di significato imponendo, per legge, ai Consigli regionali di eleggere al Senato i consiglieri che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze popolari o addirittura che vi fosse una seconda scheda con cui gli elettori indicherebbero i consiglieri regionali-senatori (e non i sindaci-senatori).
Tutto questo risulta escluso dal secondo comma, come dicevamo e più in particolare pone alcuni problemi:
- in base all’art. 122 della Costituzione, ciascuna Regione approva la sua legge elettorale, mentre la legge statale può solo dettare i principi fondamentali della stessa;
- in ogni caso, sarebbe incostituzionale una legge che vanificando il comma 2, impedisca che quella dei Consigli regionali sia una vera e propria elezione (visto che si sancisce espressamente che i Consigli regionali eleggono i senatori);
- si creerebbe peraltro una differenza, ingiustificata e ingiustificabile, tra i senatori-consiglieri regionali e i senatori-sindaci (pari al 50% del totale nella metà delle Regioni italiane) per i quali non vi è neppure nessuna generale indicazione (altro che obbligo di “conformità”) rispetto alle indicazioni degli elettori;
- in ogni caso, che senso avrebbe avuto togliere la rappresentanza della nazione per assegnare quella delle istituzioni territoriali a senatori eletti dai cittadini? E poi che senso avrebbe allora stabilire che «i Consigli regionali eleggono i senatori»? Sono parole inserite così, tanto per appesantire un po’ il testo?
La discussione, assurda come spesso quelle che riguardano questa revisione costituzionale, fa perdere tempo rispetto all’esame dei reali contenuti e mostra solo una cosa: che si cerca sempre di sostenere tutto e il contrario di tutto, piegando il significato delle parole e tenendosi lontani solo dalla chiarezza, per aggiustare il senso a seconda del momento, dell’interlocutore, in un trasformismo permanente non più solo di posizioni politiche e alleanze, ma addirittura, ormai, anche di norme. Più che la riforma del cambiamento sembra la riforma del cangiamento.