Quanto tempo è realmente passato da quel 27 Gennaio 1945, quando le truppe dell’Armata Rossa, arrivate ad Auschwitz, rivelarono al mondo un inferno mai visto prima? Quanto siamo cambiati, in questi 72 anni?
La vista di quelle persone, che Primo Levi faticava a chiamare uomini, lasciò una ferita profonda nella coscienza collettiva. E la ragione di tale impatto è da ricercare nei silenzi di chi sapeva. Quei corpi nudi, deformati, sviliti erano lo specchio della coscienza delle popolazioni europee. La parola ‘Olocausto’ da allora divenne un sigillo che mai avremmo più dovuto rompere, un monito che tutto il mondo civilizzato avrebbe dovuto rispettare, un grande buco nero che avrebbe dovuto risucchiare tutte quelle tragedie che ideologie e volontà di potenza avevano prodotto fino ad allora. Nell’abisso delle proprie colpe, un sentimento unanime avrebbe voluto espiare e sotterrare le violenze del periodo coloniale, dell’eccidio dei nativi americani, degli armeni, delle foibe, dell’Holdomor Ucraino e di tante altre piccole e grandi storie che ancora oggi una lunga tradizione orale tramanda di generazione in generazione, senza che i libri ne sappiano nulla.
Eppure riesce molto difficile, oggi, pensare al genocidio del popolo ebraico con lo stesso distacco di qualche decennio fa. Sempre più lontano riecheggia l’eco del coro unanime che sentenziò l’imperativo categorico di chiudere l’epoca delle distruzioni di massa. La volontà di chiudere il “Secolo Breve” nascondeva in sé una pericolosa fretta, che non ha portato buoni frutti. Dagli ultimi spiragli infatti, altre atrocità a sfondo razziale o religioso hanno varcato la soglia. Ed ancora la misura non è colma.
Come possiamo dire nel 2017, in Italia ed in Europa, di essere una società migliore di quella uscita dai regimi del ‘900? Quali misure abbiamo preso per distanziarci da quel secolo? Nella spinta progressista che portò la nostra società fuori dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, la ricerca di un riscatto e l’ideale di una dignità persa, diedero vita a generazioni di donne e uomini consapevoli dei valori scritti nella nostra Costituzione. Il disincanto verso i falsi miti della razza, della nazione e degli ordini storicamente precostituiti ha reso quella società impermeabile alle derive antidemocratiche di cattivi maestri. Ma ora che quella spinta è finita, duro è il lavoro di chi cerca di tenere in vita valori che qualcuno vorrebbe non più universali. Muri, barriere, limiti, confini, sono parole che appartengono ad un linguaggio che in ogni periodo storico hanno segnato la volontà di proteggere interessi privati, nascondendoli dietro paraventi pubblici. Ancora una volta stiamo assistendo a migrazioni di massa, deportazioni forzate o indotte, sangue versato per ricchezze contese. I nuovi Olocausti attraversano le nostre vite, non più sui libri di storia o sugli schermi televisivi, ma per le nostre strade, alle porte scorrevoli dei supermercati, ci tendono la mano alla ricerca di un ‘riconoscimento’. Nella vasta ed approfondita letteratura che studia i genocidi, un particolare rilievo occupa il lavoro di Hannah Arendt che intuisce una verità dolorosa che in pochi hanno avuto il coraggio di ammettere: la banalità del male. Il male non è solo frutto di abili menti o ciniche personalità. Il male è banale, è il silenzio di tutti i giorni, è il voltarsi dall’altra parte perché di sicuro se ne occuperà qualcuno. Il male è il disinteresse, perché potrebbe farlo qualcun altro al posto mio. Passivamente rimaniamo a guardare e così il senso di colpa sembra diluirsi, svanire. Che fare? Rompiamo i legami con quelle pagine di storia, reagiamo, iniziamo a sentirci responsabili per ciò che accade. Dimostriamo di essere sostanzialmente cambiati in questi 72 anni.
Davide Dionesalvi