Lo smartworking con la procedura semplificata (senza accordo individuale tra le parti, richiesto nella L.n.81 del 22 maggio 2017 sul Lavoro Agile) resta in vigore fino al 30 aprile 2021, così è stabilito nel decreto Milleproroghe convertito nella legge n.51 del 1° marzo 2021.
Del resto il rosso e l’arancione resteranno i colori dominanti dell’emergenza sanitaria in Italia e l’orizzonte di una nuova normalità sembra ancora lontano.
L’emergenza sanitaria ha determinato una forte accelerazione nella diffusione del lavoro da remoto, imponendo un cambiamento nel modello organizzativo del lavoro.
Se nel 2019 erano circa il 3% sul totale degli occupati (meno di un milione di lavoratori) in smartworking, relegando il lavoro agile ad un fenomeno di nicchia e con una percentuale tra le più basse in Europa, i provvedimenti presi a partire dal 4 marzo 2020 hanno portato la percentuale al 34% (circa 7 milioni di lavoratori di cui 2 milioni nella Pubblica Amministrazione).
La progressiva riapertura delle attività a partire da metà maggio a fatto scendere la percentuale al 24% (circa 4 milioni di lavoratori di cui 1 nella P.A. — dati – già anticipati nell’ambito del Rapporto Coop 2020, emersi dall’Osservatorio “The World after Lockdown” curato da Nomisma e Crif).
L’identikit dello smart worker vede una maggiore percentuale tra i Millennials (24–27%) che vivono al Nord (27% contro il 18% del Centro e il 22% del Sud), ma soprattutto, e ciò non stupisce, tra le donne (27% contro 22% uomini).
L’osservatorio ARIIX sul benessere degli italiani ci fa capire che se nei primi sei mesi prevalevano gli aspetti positivi del lavorare da casa, a lungo andare non sembra che si possano evidenziare grandi benefici sia dal punto di vista fisico, ma soprattutto da quello mentale e a farne le conseguenze sono soprattutto le donne.
I dati OCSE mostrano che le donne italiane lavorano 1 ora e mezza al giorno di più degli uomini, il rimanere a casa ha comportato un ulteriore aggravio del carico e l’isolamento domestico, rendendo questa modalità meno indifferente e soprattutto più pesante e stressante. Il rischio di non riuscire più a separare il lavoro dalla vita personale è altissimo e si porta dietro come conseguenza un incremento delle ore lavorate e una scarsa praticabilità del diritto alla disconnessione.
Si rischia di soffrire di isolamento e solitudine per la difficile comunicazione con le colleghe e i colleghi, ma anche di non riuscire a concentrarsi in case affollate dove è difficile ricavare una stanza dedicata al lavoro.
Si rischia di diventare “invisibili” e di venire emarginati, soprattutto se già in ufficio si era poco valorizzati.
A ciò si aggiunge che il concetto di smartworking è ancora molto confuso, spesso sovrapposto al Telelavoro (per cui per altro esiste una normativa ben scritta), e richiederebbe una trasformazione culturale, non solo un cambio di luogo fisico.
Allo smart worker va riconosciuto il risultato non per le ore svolte, ma per gli obiettivi raggiunti e deve poter scegliere in autonomia spazi, orari e strumenti, eppure le aziende faticano a lasciare autonomia e autodeterminazione indipendentemente se il lavoro è svolto in presenza o a distanza.
Altro tema è quello della cyber security, della privacy e della protezione dei dati.
La maggioranza del lavoro da remoto (75%) finora è stato svolto in modalità BYOD (bring your own device), d’altronde nessuna norma vieta l’uso di dispositivi personali ma è ovvio che la condivisione vita/lavoro possa creare non pochi problemi di privacy visto che il garante ha affermato che si dovrebbe evitare la raccolta e l’elaborazione dei dati personali (principio di Privacy by Design).
Inoltre le aziende hanno preteso competenze tecniche da parte dei propri dipendenti non sempre dovute. Come conseguenza, i consensi dati con troppa leggerezza potrebbero rendere le lavoratrici e i lavoratori “complici” di violazione della privacy: forse sarebbe opportuna una chiara norma di manleva da tale responsabilità.
Non tutto fila liscio neppure nel caso di fornitura del pc o dello smartphone aziendale.
L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori disciplina il potere di controllo, ma lo smart worker è a conoscenza per davvero dei software di monitoraggio di attività installati all’interno del dispositivo aziendale?
Per il 2021 Nomisma stima che il 16% dei workers italiani svolgerà ameno una giornata di lavoro da remoto (oltre 3 milioni di occupati). È opinione comune che il lavoro agile tenderà a diventare un fenomeno strutturale, e questo dovrà comportare necessariamente un forte cambiamento in tutti i soggetti coinvolti, dai lavoratori, alle imprese, alle istituzioni, fino ai sindacati. Occorrerà infatti una base di norme stabilite con accordi sindacali che possano essere replicate nell’accordo individuale lavoratore/datore di lavoro.
Alcuni punti hanno una rilevanza fondamentale:
- Diritto alla disconnessione
- Retribuzione del lavoro straordinario
- Mantenimento del ticket o di altri benefit compresi nella propria retribuzione
- Riconoscimento spese accessorie legate alle necessarie dotazioni tecnologiche hardware e software e alla connessione (se non fornite dall’azienda)
- Diritto alla formazione professionale
- Presenza anche in azienda
- Pari opportunità nei percorsi di carriera
- Garanzia della privacy e rispetto dell’art.4 dello Statuto
- Manleva in caso di furto di dati o violazione della privacy
- Volontarietà del passaggio allo smartworking e possibilità di ritornare indietro su richiesta
- Valutazione per obiettivi e possibilità di svolgere il lavoro negli spazi ritenuti più adeguati
Il lavoro agile dovrebbe diventare una vera opportunità, non un’emergenza, non un isolamento di chi lo subisce, non un’alternativa imposta. Uno studio uscito a maggio 2020 di Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) che coinvolge 29 pubbliche amministrazioni e 5.500 lavoratori, ha calcolato che lo smartworking è in grado di ridurre la mobilità quotidiana di circa un’ora e mezza in media a persona, per un totale di 46 milioni di chilometri evitati, pari a un risparmio di 4 milioni di euro di mancato acquisto di carburante. In termini di emissioni, si parla di un taglio di 8000 tonnellate di CO2, 1,75 tonnellate di PM10 e 17,9 tonnellate di ossidi di azoto.
Cristina Cazzulo