Più l’azione riformatrice del governo Renzi prosegue, più appare evidente il paradosso sulla quale si fonda: le riforme proposte, elaborate, eseguite dal Governo, portate in votazione in Aula sempre più spesso non hanno il supporto di un voto popolare che le legittimi, nel senso che non trovavano collocazione in alcun programma elettorale. Nè il programma di «Italia Bene Comune», al quale dovrebbe ispirarsi il lavoro dei parlamentari eletti nelle fila del PD, tantomeno nel programma con il quale Matteo Renzi ha vinto le primarie (che rimane, comunque, un programma congressuale). E anzi, alle volte sembrano riforme contro le quali, non più di un anno fa, ci saremmo battuti (riforma dell’art. 18, bonus bebè, concessioni autostradali e trivellazioni e grandi opere, per fare alcuni esempi).
Tale paradosso esplode nel momento in cui su tali riforme si pone il voto di fiducia. Il caso italiano, però, non è solo. C’è un precedente molto simile, e molto vicino, nel tempo e nello spazio. Parliamo della Francia, e del secondo governo Valls. Ma andiamo con ordine.
La V Repubblica francese — ripasso veloce*
Nata con la crisi algerina del 1958, nel 1962 vede l’introduzione dell’elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica, il quale, nella prassi, nomina e accetta le dimissioni del Primo Ministro. Il potere esecutivo è dualistico, in quanto accanto al Presidente, che presiede il Consiglio dei ministri (art. 9 Cost.), «vi è il Governo che “determina e dirige la politica nazionale” e il Primo Ministro che “dirige l’azione del Governo”».
Il Parlamento è composto da due Camere, entrambe titolari della funzione legislativa: l’Assemblea nazionale (eletta dal corpo elettorale, in carica per cinque anni) e il Senato, ove siedono i rappresentanti delle collettività territoriali. Il rapporto di fiducia intercorre solo tra Assemblea nazionale e Governo. La carica ministeriale e il mandato parlamentare sono incompatibili. L’Assemblea nazionale può approvare una mozione di sfiducia, a maggioranza assoluta (tenendo conto dei soli voti favorevoli). Infine, il Primo Ministro «può porre la questione di fiducia sulla votazione di un testo» e «questo è considerato adottato dall’Assemblea, a meno che non venga presentata entro ventiquattro ore e successivamente approvata una mozione di sfiducia. Quindi non solo spetta all’opposizione dimostrare che il Governo non ha più la fiducia dell’Assemblea, ma il testo proposto dall’Esecutivo può essere tacitamente “approvato” senza alcun voto dell’Assemblea».
Il primo governo Valls
Manuel Valls (Partito Socialista) è stato nominato Primo Ministro il 31 marzo 2014, a seguito delle dimissioni di Jean-Marc Ayrault dovute alla sconfitta del Partito Socialista alle elezioni amministrative. Il 2 aprile 2014 è stata annunciata la lista dei ministri, con la novità della mancata partecipazione dei Verdi. Il primo governo è caduto il 25 agosto dello stesso anno a seguito delle dimissioni del primo ministro Valls.
Le dimissioni di Valls nascono da uno scontro con l’allora ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg (già candidato alle primarie socialiste del 2012, risultato terzo con il 17% dei voti), il quale giudicava la linea dell’esecutivo troppo succube alla politica di austerità imposta all’Europa dalla Germania, o più in generale criticando una «linea politica giudicata da alcuni, semplificando, più di destra che di sinistra e, in ogni caso, poco coraggiosa».
Il secondo governo Valls
Incaricato nuovamente da Hollande, Valls forma il suo secondo governo il 26 agosto 2014. Escono dall’esecutivo, oltre a Montebourg, Benoit Hamon (Istruzione) e Aurélie Filippetti (Cultura), «che ha pubblicato una polemica lettera contro Valls e Hollande, accusati di aver “aggravato la crisi” e tradito il proprio elettorato, tassando la classe media e privilegiando sgravi fiscali alle imprese. “Manca solo che ci scusiamo di essere di sinistra”, ha chiosato Filippetti».**
Al posto di Montebourg, all’economia, è arrivato Emmanuel Macron, «il banchiere d’affari, già consigliere economico di Hollande, è autore del “Patto di responsabilità”, il pacchetto di sgravi alle imprese che ha provocato la protesta dei deputati “frondisti”. La nomina di Macron è un segnale chiaro all’ala riottosa del Ps», scriveva Repubblica.
La fiducia e i dissidenti
16 settembre 2014, citando Il Post:
Il premier francese Manuel Valls, socialista, ha ottenuto la fiducia del Parlamento con 269 voti favorevoli e 244 contrari. I voti a favore sono stati inferiori rispetto all’ultimo voto dello scorso aprile, quando erano stati 306. Sono 31 i socialisti che si sono astenuti.
In sostanza, il secondo Governo Valls non ha ottenuto la maggioranza assoluta. Ed è stato determinante il comportamento dei socialisti dissidenti, quelli più vicini a Montebourg. Sono stati espulsi? No, sono ancora tutti quanti nel gruppo socialista.
In questa infografica (attenzione: risale al 29 agosto, quindi è precedente al voto di fiducia) tutti i parlamentari socialisti sono stati catalogati in base al loro posizionamento. I «frondeur» sono coloro i quali hanno rifiutato «de voter le programme de stabilité budgétaire en avril»: furono ben 41 a non votarlo, più tre «chevènementistes», legati al gruppo socialista.
Circa la metà di questi, appartengono al collettivo «Vive la gauche!», il quale:
Rassemble notamment les «frondeurs» socialistes, réclame une réforme fiscale, un «rythme de réduction des dépenses publiques «adapté à la conjoncture», une «réorientation» de l’Europe et une refonte des institutions, dans sa contribution aux états généraux du socialisme.
La fronda si allarga
Oltre al calo di consensi, (a fine settembre l’86 per cento dei francesi si dichiarava insoddisfatto dell’operato di Hollande), a colpire la coppia Hollande — Valls ci ha pensato, negli ultimi giorni, anche Martine Aubry, la quale alle primarie presidenziali del 2011 si classificò seconda, dietro a Hollande e davanti a Montebourg. La questione è così tornata in Parlamento:
Ben 39 deputati socialisti si sono astenuti nella votazione di martedì 21 ottobre sulla legge di bilancio. Fra loro i due ex ministri Ps Delphine Batho e Aurélie Filippetti. Il progetto di legge è passato con 266 voti a favore, 245 contrari e 56 astensioni. Ora paserà all’esame del Senato. I “frondisti” criticano soprattutto i tagli di 21 miliardi di euro, secondo loro indiscriminati e troppo pesanti per gli enti locali, che subiranno tagli di 3,7 miliardi di euro. Inoltre essi lamentano “la mancanza di dialogo” fra il governo e i deputati della maggioranza.
Ipotesi di scissione?
Il dibattito sulla scissione del Partito Socialista è comunque in corso. Gérard Grunberg, politologo, in un’intervista rilasciata una settimana fa a Le Figaro, dichiara:
Per il momento, le diverse correnti sono obbligate a coesistere, per ragioni politiche e pratiche. Nessuno in fondo ha interesse che il Partito Socialista esploda. I ribelli stessi non vogliono la scissione, e preferiscono prendere il controllo del partito, almeno ideologicamente. Non pesano ancora abbastanza sulla scacchiera politica, e non possono sperare in un’alleanza con altri partiti di sinistra, come il Partito Comunista, per vincere in caso di rottura col PS. Restano al momento minoritari, e sanno che in caso di rottura renderebbero fragile la maggioranza presidenziale, il governo, e aprirebbero la strada a una crisi di cui nessuno conosce l’esito. Preferiscono dunque continuare a sostenerlo, seppur criticandolo.
Le divergenze attuali, già forti, sono rafforzate dal fatto che il partito sia al potere, e applichi concretamente una certa visione del programma socialista. Nessun dubbio che andranno ad amplificarsi nei mesi a venire.
Tuttavia, se le correnti sono costrette a coesistere per il momento, la situazione rischia di cambiare drasticamente dopo le elezioni nazionali del 2017. Non escludo che allora una frattura definitiva si insinui in seno al Partito.
C’è una differenza, però, rispetto all’Italia: Primo Ministro e Segretario del Partito Socialista non coincidono, e il secondo non cerca ossessivamente lo strappo con i dissidenti, attraverso continue prove di forza. Jean-Christophe Cambadélis, il Primo Segretario socialista, sta — al contrario — facendo il possibile per tenere assieme le diverse anime del partito.
E in Italia?
Non sappiamo quale sarà il trattamento che verrà riservato ai dissidenti del Partito Democratico, seppure le parole del Premier e Segretario, Matteo Renzi, non sembrano far pensare ad alcun tipo di comprensione rispetto alle posizioni assunte dai parlamentari che esplicitano la mancanza di corrispondenza tra il mandato ricevuto e le politiche attuate dal Governo. Anzi, il continuo ricorso allo strumento della fiducia (e addirittura alla fiducia sulla fiducia, la fiducia al quadrato, richiesta sulla riforma del lavoro) non fa presagire nulla di buono.
Nel caso di un Premier che assomma su di sé anche la carica di Segretario (laddove questa indichi la leadership del partito), grava a maggior ragione l’onere di tenere insieme il partito. E in effetti (è il caso Inglese) la coincidenza di premiership e leadership ha senso in una logica che cerca di rendere l’esecutivo più stabile, se la leadership è utilizzata per consolidare prima la posizione nel partito per portarla solo successivamente come proposta nelle Istituzioni. In questo doppio passaggio, sarà il leader a dover valutare se la sua stessa leadership è messa in discussione, e in quale misura.
Vive la France!, dobbiamo metterla così?
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*Morbidelli, Pegoraro, Reposo, Volpi. Diritto pubblico comparato, Giappichelli Editore.
**Repubblica, 26 agosto 2014.
Un ringraziamento a chi mi ha dato una mano con traduzioni, ricerca delle fonti, consigli vari.