[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1495795920721{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Il Tar Lazio ha accolto il ricorso di una concorrente per la posizione di direttore di alcuni Musei, riconoscendo alcuni vizi della procedura concorsuale di assegnazione. In un Paese in cui i principi dello Stato di diritto siano maturi e con essi il principio di separazione dei poteri la notizia non dovrebbe fare particolare scalpore e soprattutto non dovrebbe determinare le reazioni scomposte di chi ricopre o ha ricoperto (e magari aspira a tornare a ricoprire) cariche istituzionali. In particolare è circolata in rete l’affermazione di un ex Presidente del Consiglio dal seguente tenore: «Non abbiamo sbagliato perché abbiamo provato a cambiare i musei. Abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar». Essendo due gli ex Presidenti del Consiglio ai quali si potrebbe ricondurre forse un’affermazione di questo tipo, precisiamo che si tratta di quello che più recentemente ha lasciato la carica.
Ora, la riforma della giustizia amministrativa, naturalmente, è una possibilità alla quale si potrebbe benissimo guardare, ma da questa non potrebbe passare, in ogni caso, la sottrazione del sindacato sulle decisioni amministrative a un giudice. Perché questo significherebbe togliere ai cittadini la tutela che è stata faticosamente conquistata quando si è arrivati allo Stato di diritto (prima del quale c’era lo Stato assoluto, nel quale il potere pubblico era, appunto, legibus solutus, sottratto al rispetto della legge e a un giudice che ne assicurasse il rispetto).
Questa e altre simili prese di posizione (che hanno abbondato anche tra molti commentatori) peraltro sembrano non considerare i reali passaggi della lunga sentenza 24 maggio 2017, n. 6171, che quindi vale la pena ricapitolare brevemente.
Con essa, in particolare, è stato ritenuto che le modalità di assegnazione dei punteggi non integrassero gli estremi di un’adeguata motivazione; che lo svolgimento del colloquio non ha avuto la necessaria pubblicità; che siano stati ammessi a concorrere cittadini non italiani che, in base alle norme vigenti, non possono partecipare all’assegnazione di posizioni dirigenziali quali quelle messe a concorso nel caso di specie.
La motivazione del Tar non è certamente frettolosa, come possono verificare coloro che abbiano letto la sentenza 24 maggio 2017, n. 6171, che sono certamente – e incredibilmente – molti meno di quanti la stanno commentando.
Il punto più controverso, perché tacciato di “provincialismo” (anche da molti provinciali che ad un certo punto avevano fatto sparire la bandiera europea da importanti sedi istituzionali), è quello relativo alla necessaria cittadinanza per accedere alle posizioni messe a concorso. Si tratta di una questione che è oggetto di discussione, in virtù di principi generali del diritto dell’Unione, ma che è frutto di una scelta legislativa, che il Tar ha cura di richiamare evidenziando come questa non sia stata modificata dal legislatore che pure proprio in relazione all’attribuzione di queste particolari posizioni aveva apportato altre numerose modifiche (tra cui quella per cui, nel caso, non è stata necessaria una previa verifica della presenza di risorse interne). Naturalmente, il legislatore poteva fare altre scelte, ma, appunto, non le ha fatte e il Tar ha ritenuto di attenersi a questo, non ritenendo che queste vadano contro i suddetti principi generali del diritto dell’Unione europea, nel rispetto delle proprie funzioni e competenze.
In ogni caso, rimarrebbero gli altri due profili di illegittimità che paiono anche più difficilmente superabili. Certamente la pubblicità è una regola generale dello svolgimento delle prove che davvero sorprende non sia stata rispettata e anzi oggetto di particolare cura, tanto più – come in effetti rileva il giudice amministrativo – in presenza di modalità di svolgimento in collegamento Skype dei candidati. Anche su questo punto i commentatori-nonlettori della sentenza hanno già sottoposto a critica il fatto che il Tar non abbia accettato la modalità di svolgimento in collegamento del colloquio, che non è oggetto della censura, essendolo invece il mancato rispetto della pubblicità.
Infine, l’elemento comunque dirimente e più difficilmente superabile tra tutti sembra proprio quello delle modalità di attribuzione del punteggio. Infatti, il Tar, dopo avere precisato che il punteggio numerico è da considerarsi di per sé sufficiente a giustificare valutazioni effettuate da una commissione di concorso «allorquando i criteri prefissati di valutazione siano estremamente dettagliati» (adottando quindi l’orientamento più favorevole al modus operandi prescelto) ha tuttavia dovuto rilevare l’illegittimità dell’operato di questa Commissione che «ha ricondotto in maniera “magmatica” i 20 punti di massima assegnazione ai candidati della “decina” ammessi al colloquio con la commissione, a tre sottosettori contraddistinti con le prime tre lettere dell’alfabeto». Infatti «tale operato non consente di comprendere il reale punteggio attribuito a ciascun candidato, anche in ordine al criterio di graduazione di ogni singolo punto dei 20 da assegnare all’andamento della prova orale, a conclusione del colloquio sostenuto».
Come si vede, i passaggi sono molti e non è detto che avere un altro giudice al posto di un Tar avrebbe portato a soluzioni migliori per la Pubblica amministrazione. A meno che non si intenda sostenere proprio che contro le decisioni della Pubblica amministrazione non debba esservi nessun giudice, “come ai bei tempi dello Stato assoluto”. Ai cittadini che si uniscono alle critiche alla decisione perché non si deve ostacolare il potere “che prova a cambiare le cose” ricorderei che sono i giudici (anche amministrativi) gli unici a cui potranno chiedere tutela se un giorno il potere lederà un loro diritto o una loro legittima aspettativa.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]