Forte però: alla fine vince Trump e i sostenitori della riforma costituzionale partono a spron battuto a dirci che il sì al prossimo referendum serve anche per questo. Per evitare Trump? Anche. Per non fidarsi dei sondaggi? Certo. Tutto: qualsiasi notizia di cronaca, di politica, di società, qualsiasi disgrazia, qualsiasi vittoria, qualsiasi sconfitta, qualsiasi celebrazione, addirittura anche qualche defunto sono potabili a questa campagna referendaria esondata in una turbocampagna elettorale. Una raffica continua di malleabili spot pronti all’uso che si scaldano sulla punta delle dita di un esercito di twittaroli, pronti in bozza per le bacheche Facebook e con le brigate intente a mandare a memoria gli slogan da sciorinare in televisione. Su tutte le televisioni.
Il metodo, cari: il metodo in politica (e non solo) è il termometro della statura di una riforma. Come la si dice, coma la si scrive e soprattutto come la si racconta. Il metodo di una campagna è il cuore della campagna stessa: possiamo riempirla di tutti gli ammennicoli, possiamo musicarla con colonne sonore magnificenti ma il “come” passa, eccome. E per questo insisto fino allo sfinimento che da qui al 4 dicembre non c’è solo da evitare al Paese una pessima chirurgia costituzionale pericolosa per gli equilibri e il funzionamento del nostro Paese ma c’è anche da costruire un metodo di fare politica che non si presti a travestimenti: mentre quegli altri a giorni alterni indossano il frac dell’establishment e poi l’elmetto dell’antiestablishment (con un pezzo di stampa che celebra lo show senza nemmeno un filo di dubbio per il trasformismo) noi abbiamo il compito di raccogliere e accogliere. Raccogliere i voti, sì certo, (è la politica, eh) e accogliere tutti quelli che sono storditi dal “fuori! fuori!” gridato nelle orecchie oppure che fuori ci sono da talmente tanto tempo da non riuscire nemmeno a bussare. E farlo con metodo, con coerenza (anche se in questo tempo di passaggio la raccontano snob e fuori moda, la coerenza), possibilmente senza incastrarci nel gioco dell’oscena rappresentazione che ci viene proposta.
“Abbiamo vinto, Giulio. Il referendum ce lo portiamo a casa” mi diceva ieri qualcuno dopo l’ennesima serata passata a raccontare il sottotesto della riforma Renzi-Boschi. E mentre me lo dicevano, lo confesso, mi è sceso un brivido sulla schiena. Il Paese non sta nei sondaggi, no. Il Paese reale purtroppo è anche troppo arruffato e depresso per funzionare come ospite nei talk-show. Questo referendum (e le sfide successive) ci chiede di giocare a un altro gioco rispetto a quello in cui vorrebbero inserirci: dobbiamo imparare a occuparci delle persone e, se saremo davvero bravi, anche a preoccuparci di loro nel senso letterario del termine anticipandone i bisogni, i timori e le fragilità che saranno. Piuttosto che leggere le analisi dovremmo scrollare le antenne perché intercettino di più e meglio i fatti, perché si connettano con i luoghi più fragili del nostro mondo.
E poi, per favore, ricordiamoci il passato perché il dna della politica che diventa spot parla di merito ma poi si appiattisce sempre sulle regole peggiori della propaganda. Il berlusconismo ha sempre professato l’utilità di dare il colpo di coda per tirare fuori la testa dall’acqua nelle battute finali di una battaglia politica. Se si decide di non entrare nel merito della discussione si passa il tempo a confezionare lo spottone che rimanga in testa a pochi giorni dal voto. Non abbiamo fatto ancora niente. Il difficile è ora. E il difficile è bellissimo, per chi è in campo su qualcosa in cui crede davvero.
Buon Tour Ricostituente a tutti.