La mattina del 7 febbraio 2020 Patrick Zaki è appena arrivato all’Aeroporto del Cairo. Fino a qualche ora prima si trovava a Bologna, dove frequentava un master in “Women’s and gender studies”. La sua famiglia lo aspetta fuori dal gate. È al telefono con loro mentre è in fila al controllo passaporti, nel cellulare c’è ancora la sim italiana.
Un agente si accorge che su di lui pende un mandato di arresto, lo prende in consegna e lo conduce in una stanza. Patrick riesce ad avvertire i genitori, prima che le comunicazioni vengano interrotte.
Viene bendato, rinchiuso in una stanza. Viene trasferito in un edificio dei servizi segreti egiziani, condotto in una stanza con due agenti, picchiato e torturato con l’elettricità in un modo che uno dei suoi avvocati definirà “professionale”.
Da allora, inizia un incubo che non ha ancora fine.
Altri due trasferimenti, l’ultimo nel carcere di Tora, riservato a terroristi e prigionieri politici.
I continui rinvii delle udienze.
La mancanza di comunicazione con la famiglia, che durerà mesi.
La paura del virus.
La preoccupazione per la sua salute fisica e mentale.
Continuiamo a ricordarlo. Insistiamo, ancora e ancora, perché le istituzioni italiane ed europee si mobilitino per la sua liberazione, come abbiamo fatto sin dal primo giorno insieme a migliaia di persone.
Quella di Patrick è una delle “cause perse” – che speriamo con tutto il cuore che alla fine non si riveli tale – a cui ci siamo affezionati e appassionati.
Chi pensa che la politica non dovrebbe occuparsene la confina a un ruolo minore, ancillare, grottesco.
Con una politica così ci si puliscono i piedi i potenti. E continueranno a farlo.